di Alessandro Antonelli
Il freddo, soprattutto il freddo. All'alba di
giovedì 2 febbraio 1956, prima che duecento zappe affondino nella terra
«dura e pietrosa», sulla mulattiera che da Partinico
scende a mare, l'acqua cade mista a neve. L'inverno è terribile, la morsa
di gelo strozza l'Italia e perfino Roma si risveglia imbiancata. Ma a Roma, in fondo, è un giorno normale: il sole
sorge alle 7.45 e tramonta alle 17.29, i giornali commemorano gli
anniversari della morte di Moliere e di Checov, la tv trasmette il pattinaggio artistico e
nei cinema ci sono Anni facili e Scaramouche .
In Sicilia, invece, si muore di fame. Danilo Dolci
lo sa. Lo sa da quando è calato qui per toccare con mano lo strazio dei
respinti, da quando si è adagiato sul letto di una bimba crepata di inedia e ha visto pargoli finire vomitando budella.
Anche quel 2 febbraio, quel giorno che inizia
per strada e finisce in galera, nel quartiere Spine Sante di Partinico ci si muove tra i liquami. Il paese è una
fogna a cielo aperto, le famiglie non hanno acqua in casa, manca il cibo
e si contano almeno diciassette matti per la fame. Lucio Lombardo Radice
su L'Unità scrive: «Il fetore grava come una nube di miasmi su di una
palude». Qualche inferno più in là, a Trappeto,
la notte si dorme con le mani sulle orecchie per non sentire il brontolio
dei motopescherecci che vengono a fare razzie: è la mafia del mare,
pescatori di frodo che indisturbati rapinano i villaggi costieri
dell'unica risorsa per vivere. E poi c'è la
mafia che controlla l'acqua, quella che vuole impedire che il progetto
della diga sul fiume Jato, per l'irrigazione
dei campi durante i periodi di siccità, vada in porto. Come
se non bastasse «il sussidio invernale straordinario e la riforma agraria
- si legge nelle cronache de L'Unità e de L'Avanti - sono ancora tutte
allo studio del tale ufficio o del tale ministero». Tutte queste
cose, Danilo Dolci le sa. E sa pure che c'è un
popolo inerme e defraudato, che non chiede altro che pane e travagghiu, quattrocento lire per tirare a campare.
«Solo qui - scrive - siamo in più di settemila con le mani in mano per
sei mesi all'anno». E
così da qualche tempo va radunando i derelitti del "triangolo della
miseria": contadini, braccianti, pescatori e edili di Partinico, Balestrate e Trappeto.
Nei due ettari del suo "Borgo di Dio" ci si riscopre uomini, si
celebrano riunioni e seminari di autocoscienza
popolare, si discute di povertà ma anche di astrofisica. Si ascoltano Bach, Mozart, e Beethoven. Intanto Danilo scrive al sindaco, al
prefetto, al presidente della regione, al governo e al capo dello Stato:
«Non possiamo assistere al nostro abituale inventarci». Organizza scioperi
della fame e dimostrazioni. Non è uno qualunque, Danilo
Dolci. E' "lo scrittore". Da poco Laterza
ha pubblicato il suo Banditi a Partinico , un libro inchiesta fatto di testimonianze
drammatiche che sembrano già epitaffi, una Spoon
river degli ultimi che si apre con un durissimo
atto d'accusa: «Tra noi c'è un mondo di condannati a morte da noi». Il Gandhi della Trinacria è un
personaggio scomodo, che riesce ad attirare l'attenzione di artisti e intellettuali. Nella Camera del lavoro,
tappezzata dai manifesti dove campeggia l'articolo 4 della Costituzione,
arrivano in continuazione fogliettini gialli:
sono i telegrammi di solidarietà. Alcuni sono firmati Guttuso,
De Sica, Fellini, Moravia, Levi, Calamandrei, Sartre.
Arrivano pure soldi, finanche dai quaccheri americani. Tanto basta perché
Dolci sia considerato un «sedizioso», uno che «diffama l'Italia», un
individuo dalla «spiccata capacità a delinquere». Anche
lui chiede pane e lavoro, perché in fondo qualche lavoro ci sarebbe da
fare. Per esempio c'è quella trazzera, quella
stradina demaniale impraticabile e abbandonata, dissestata e ricoperta di
fango, che per otto chilometri si snoda dall'agro di Partinico
verso il mare, fino al mercato orfrutticolo.
Per via di quelle buche e dei «sassi scombinati» i carri non ci passano.
Così com'è, i contadini impiegano ore a percorrerla e i prodotti freschi
deperiscono al sole. Allora si può cominciare da lì. Può cominciare da lì
lo "sciopero alla rovescia": disoccupati che lavorano gratis,
per mettere a posto la trazzera. E per dimostrare che si può lavorare, per di più facendo una
cosa utile a tutti. Ci avevano già provato qualche
giorno prima, ma la polizia aveva indotto Dolci e i suoi
"banditi" a più miti consigli, alla ritirata: non si può fare,
dicono le autorità, è occupazione di suolo pubblico. Ma
l'appuntamento è solo rinviato. Anche perché la teoria di Dolci è di una
semplicità disarmante: se il popolo non ha una cosa, prima
o poi se la prende. Alla vigilia del 2 febbraio 1956 la stampa è
informata, l'iniziativa annunciata e preparata con cura. C'è fermento e entusiasmo, soprattutto perché tre giorni prima il
digiuno dei mille sulla spiaggia di San Cataldo ha fatto molto scalpore.
Dolci scrive ai cittadini del paese: «Nessuno ci potrà impedire di
lavorare. Sarebbe bollato d'infamia per i secoli». E
allora si va, con passo lento e deciso. Il mahatma e i suoi
"banditi". Nessuna brama di tumulti, però. Danilo, apostolo
della nonviolenza, obbliga i compagni a non portare con sé neanche un
taglierino. Pazienza, il pane si spezzerà con le mani. Lavoro e solo
lavoro, magari una sosta, dondolati dal suono delle armoniche a bocca. E poi bisogna stare attenti ad evitare provocazioni. Perché quelli sono anni terribili, di miseria
censurata e repressioni, Tambroni spedisce gli
"sbirri" dappertutto, le manifestazioni spesso finiscono nel
sangue e qualche volta ci scappa pure il morto. Si spara e si muore nel
Mezzogiorno. A Venosa, Comiso, Barletta,
dappertutto. Perché? Perché è
più facile governare un popolo sfinito dagli stenti anziché una massa
cosciente dei propri diritti. Ma anche perché il
"sistema" non vede di buon occhio quella strana alleanza tra
sacerdoti e sindacalisti, cattolici e comunisti: nelle proteste davanti
ai palazzi del potere locale puoi sentire Bandiera Rossa mischiarsi
all'inno alla Madonna di Fatima («Oh, dolce Madonna di Fatima, dà lavoro
ai disoccupati»). Intervistato in quei giorni di
agitazione il parroco di Aidone, Don
Angelo Minisola, dice: «No, i nemici non sono i comunisti, sono piuttosto
quelli che hanno e non vogliono dare». E ancora:
«Mi addolora che alla vostra testa non ci siano
quelli che si dicono cristiani, che adoperano lo scudo crociato ma non
sono capaci di affrontare le lotte del popolo». Anche
per questo, forse, si spara. E quando non si
spara si può star certi che scatteranno le manette. E
così alle 7 circa del 2 febbraio 1956 «duecento zappe sollevate da
braccia robuste - scrive l'inviato speciale dell'Unità - affondano nella
terra dura e pietrosa». Insieme a Dolci ci sono i disoccupati e i
sindacalisti, i «compagni» Ignazio Speciale,
Gaetano Ferrante e Francesco Abbate. Ci sono il
giovane Goffredo Fofi e uno studente, Carlo
Zani, venuto da Torino, per collaborare al Borgo di Dio. Ma ci sono anche gli "sbirri", tanti,
tantissimi. Neanche il tempo di iniziare a sistemare la trazzera che «sopraggiungono rombando otto camion di agenti e carabinieri e una decina di jeep di
celerini». Trecento uomini, almeno. Dolci e i dirigenti sindacali vengono caricati su una camionetta, spediti prima al
commissariato e poi all'Ucciardone di Palermo,
arrestati con l'accusa di sedizione, oltraggio e resistenza a pubblico
ufficiale. «Contemporaneamente - si legge ancora nella cronaca de l'Unità
- si odono tre squilli di tromba e un commissario grida: "In nome
della legge, vi dichiaro tutti in arresto"». In nome della legge,
che strano. Proprio in nome della legge, della Costituzione, i
"banditi" erano lì, a chiedere lavoro. Niente da fare. Gli
agenti si lanciano sui braccianti, togliendogli zappa e picconi. Per
sfuggire ai poliziotti lo studente di Torino si lancia nelle acque del
fiume Margi, poi viene
inseguito e «ammanettato come un delinquente». Lo "sciopero al
rovescio" finisce così, col carcere e con le condanne che nemmeno
l'appassionata difesa di Calamandrei riuscirà a
risparmiare al Gandhi degli ultimi. Tanta solidarietà, è vero, in quei giorni straordinari e
terribili: ci saranno proteste, assemblee, scioperi, interrogazioni
parlamentari. Ma pure la controffensiva
moderata, la voglia di insabbiare tutto. «Una subdola manifestazione
abortita» titolerà Il Messaggero . E Il Popolo , organo della Dc,
scriverà: «La fretta, gli impulsi, la demagogia, le pretese
miracolistiche sono sempre cattivi consiglieri». Sarà. Ma tra i
pescatori di Trappeto e i braccianti di Partinico quella fretta voleva dire vita. Lo sapeva
Danilo, quando aveva invocato la sua preghiera più intensa: «Fare presto (e bene) perché si muore».
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