di Lidia Menapace
Ho avuto modo di ripensare la figura di Danilo Dolci perché la
compagnia teatrale di Franco Però
ne ha rievocato la figura e diffuso il suo vecchio testo
Una rivoluzione nonviolenta di
recente, e sono stata coinvolta nella rappresentazione. Si è
trattato di un recupero importante:
penso che si dovrebbero sistematicamente ripassare gli anni della
seconda metà del secolo scorso, per non interrompere i tramiti della
memoria, cadendo in una sorta di Alzheimer politico, molto pericoloso e non meno
temibile di quello clinico. Mi spiego: venuto meno il compito di trasmettere la memoria del
passato recente, quasi del presente, attraverso le grandi organizzazioni
politico-partitiche, la memoria non ha trovato tramiti più critici
e meglio informati. Le vecchie
scuole di partito potevano certamente essere accusate di narrare una storia spesso apologetica
e poco critica, ma le ricostruzioni che avvengono attraverso
quotidiani e tv hanno un esplicito ma subliminale sapore di
strumentalizzazione, addirittura di
costruzione di falsi storici, spesso di proporzioni inattese.
Basta pensare a come è stata rievocata la Rivoluzione d’ottobre e
alla mancanza di criteri significativi per leggere le molto variegate realtà politiche dell’America
latina. E’ proprio vero ciò che diceva Lenin: «La memoria del presente si deposita
nell’organizzazione». Quando parlo di ricostruzioni strumentali, non
mi riferisco solo, né tanto alle
scuole storiografiche negazioniste, troppo
scoperte, ma al fatto che forme
storiografiche sofisticate e sottili tuttavia
ripercorrono il passato attraverso letture omologate e omogeneizzanti, prive di
rilievo e di intreccio, come se tutto si svolgesse in fin dei conti in una sorta di mediocre
continuità. Eppure poche volte la storia ha
mostrato fratture frammentazioni e
dislocazioni come durante la seconda metà del secolo XX! La prima deformazione avvenuta per aver usato
come strumenti storiografici gli schemi di eventi precedenti come fossero dei calchi,
mentre mostravano il massimo di cesura, è stato a proposito della Resistenza, riadattata
alle guerre del Risorgimento e non studiata nella sua straordinaria specificità di presa di
coscienza politica di massa, comprese per la prima volta le donne. Se le vecchie scuole di partito
potevano essere censurate per scarso approfondimento critico e
obiettività, per essere spesso più un ammaestramento che una informazione e
formazione critica, è altresì vero che i programmi televisivi sia
pubblici che delle tv private sono
una precisa scelta di deformazione e propaganda: non solo cioè la
storiografia negazionista
taglia tutto ciò che era stato consegnato per certo, sia pure con qualche
rozzezza e superficialità negli
anni passati, ma sostituisce interi pezzi di storia con emozioni gridate
e superficialità oltre il
sopportabile. Siamo dunque stati spesso derubati della memoria e un popolo senza memoria può essere tirato
da ogni parte e non si difende, non può, gli mancano gli strumenti. Se poi la storia deve
essere costruita attraverso personaggi disallineati
non riducibili non catalogabili,
allora la ricetta è semplice: vengono cancellati
saltati citati senza alcun
rilievo. E’ capitato a Dolci, è capitato a Balducci,
è capitato a Lina Merlin. Non è dunque solo una operazione
di pietas o di colmamento di una lacuna, bensì
la proposta di riscrivere con
altri criteri la storia, che può far tornare fuori dall’oblio persone
delle quali non è bene che si
perda la storia, che è ancora viva e parlante. Dico incidentalmente che -
ad esempio - una figura come Lina Merlin è stata vittima di un processo come quello che
ho accennato. Quanto a
Danilo Dolci, la sua figura era davvero fuori di ogni
conformismo, era vitale, molteplice,
irriducibile. E’assolutamente giusto riparlarne oggi, quando uno
dei compiti che abbiamo è di
mutare innovare capovolgere le forme il linguaggio
i metodi della politica. Per Dolci la politica era
fondamentalmente una avventura interpedagogica,
un cammino di crescente
consapevolezza, un processo di composione
intreccio tessitura di vicende espressioni decisioni tutto sempre molto riflettuto, meditato, confrontato. Mirabili gli episodi come quello dello “sciopero a rovescio” iscritto nella
valorizzazione e applicazione di ciò che la Costituzione afferma, e quindi andando oltre la
crosta superficiale di una legalità formale, oltre il legalismo intimidatorio per approdare alla cittadinanza.
Dopo ogni lotta si può misurare allora che il livello di consapevolezza, di unità, di solidarietà aumenta, e si stabilisce nel
contempo un legame profondo. Una
politica così non è “pacifista” in senso astratto o predicatorio, ma è
lo strumento per costruire una
pace dando conto delle contraddizioni che l’attraversano, delle impossibilità che incontra e non sempre
riesce a travolgere, dunque è anche esperienza di sconfitta. Poiché
è pedagogia e non ammaestramento la politica di Dolci è imprevedibile, e
non è nemmeno possibile che
diventi ripetizione burocratica. Ciò svela il suo fondamento
antimilitarista: quanto il militarismo è ripetizione e copiatura e
allineamento, così la nonviolenza è sorpresa e creatività. Lo dimostra e racconta con intrinseca
eloquenza il periodo da lui
passato in Sicilia dopo il terremoto e nei luoghi funestati dalla
spocchia dei feudatari, sostenuto
da semplice fedeltà a se stesso. Il fervore dell’azione, il gusto dell’adattabiltà e del
riuso della materia, ne fanno una figura
esemplare e nello stesso tempo non legata a dati o schemi o legami o religioni.
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