di Katia Ippaso
E' il 1956. Si sta celebrando il processo a
Danilo Dolci, pacifista d’azione, l’ideatore del celebre “sciopero
alla rovescia” che ha portato i
disoccupati e i braccianti del “più misero paese d’Italia” a lastricare
una strada non transitabile di Trappeto,
per manifestare in una forma
creativa a paradossale il diritto al lavoro sancito dall’articolo 4 della
Costituzione. Per l’occasione, da Firenze arriva anche Piero Calamandrei, con la sua requisitoria raffinata che
cita Socrate e il dissidio tra Antigone e
Creonte. E’ da questa scena intrinsecamente teatrale che parte E’ vietato digiunare in spiaggia, lo spettacolo
diretto da Franco Però (anche
autore assieme a Renato Sarti) che nel decennale della morte di Danilo
Dolci sta facendo il giro d’Italia, con
l’obiettivo di combattere un’amnesia collettiva. Ne parliamo col
regista.
Da quale cassetto della memoria
è emerso Danilo Dolci?
Avevo sfiorato la sua storia diverse volte, ma gli stimoli si
accendevano e spegnevano, finché sono andato a
Palermo con Se questo è un uomo e
una sera a cena un gruppo di ragazzi mi ha chiesto come mai, essendo
triestino come Danilo Dolci, non
mi ero ancora occupato di questo personaggio che in Sicilia aveva
lasciato un segno decisivo. Così ho cominciato a fare delle ricerche e
assieme a Renato Sarti ho costruito una drammaturgia partendo dagli episodi
più teatrali della sua complessa vicenda umana e politica, che nello
spettacolo vengono introdotti da un cantastorie.
Nello spettacolo, la figura di
Dolci interpretata da Paolo Triestino si ritaglia soprattutto come figura
dell’ascolto.
Poco prima di morire Dolci ha detto: «Io ho
sempre fatto domande, non ho mai chiesto niente». In questo senso,
la sua lezione di “maieutica
reciproca” è stata importantissima. Quello che lo interessava era
costruire ponti e mai steccati. Se c’era una
persona lontana, lui andava a cercare proprio quella.
La requisitoria di Piero Calamandrei viene letta ogni
sera da un personaggio pubblico che si è distinto nella difesa dei valori costituzionali.Come ha funzionato finora il cortocircuito tra
discorso diretto e narrazione scenica, l’interferenza del presente nel
flusso di una storia che parla degli anni Cinquanta e Sessanta?
In quel momento, si crea un’attenzione speciale alle parole.
Tutti le hanno pronunciate con grande
partecipazione, da Fausto Bertinotti (che Calamandrei l’ha conosciuto e ce lo ha descritto come
un personaggio capace di unire l’universale al particolare), fino a
Gherardo Colombo, a Gian Carlo Caselli, Omero Antonutti,
Lidia Menapace e Dacia Maraini.
Ad un certo punto abbiamo dovuto
dire di no a qualcuno perché le offerte eccedevano il numero di serate a
disposizione.
Parlare del “Gandhi d’Italia”porta sempre con sé il rischio
dell’agiografia.
Era proprio quello che abbiamo cercato di evitare, lavorando
anche sulle contraddizioni di un uomo come Dolci che, solo per fare un esempio, accettava il Premio
Lenin dichiarando però di non essere comunista. Lui si definiva
cristiano, liberale, socialista e
garibaldino.
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