Oreste
Scalzone
Mi permetto di approfittare, epperò “a carte scoperte”
(dichiarando il gioco, il che rende limpido l’espediente comunicativo) del
carattere apparentemente “sghembo” di questa “Lettera aperta” agli
studenti francesi -ribellatisi contro una legge che rilancia e santifica
una proliferazione colossale del precariato; lotta, movimento che va
dilagando e si è trovato un epicentro altamente simbolico, Sorbona
occupata e barricate sul Boul’Mich’, con annessi e connessi, che anche
volendo non possono non diffondere, come la madeleine della Recherche
proustiana, un profumo di remake - per dire alcune cose che probabilmente
risultano a prima vista un po’ astruse a lettori e lettrici ventenni, in
Italia o in Francia o altrove.
Cose, che possono risultare un po’ “esoteriche”, strizzate d’occhio tra
addetti ai lavori. Vero: ma si deve scrivere solo perché chi legge si
rassicuri, trovando ciò che sa già, o suppone sapere, trattandolo come il
cane di Pavlov; oppure per stupire, angosciare, “stressare”, sgomentare?
Certo, per lo più così si fa, cosi’ si fa “in alto” - si fa “dall’alto in
basso”. Cosi’ si fa, in primo luogo, nell’immensa “cronaca nera” in tempo
reale assestata dai media, così come in tanta fiction “nerissima”, da
incubo: si fa cosi’, nella definizione dei confini fra cronaca, fiction,
“reality-show”, genere “fantastico”... Come osserva Debord, nella una
“follia del capitale”, al di là di una certa soglia, «il vero diventa una
figura del falso». Che si fa, si concorre all’abbassare l’attività del
pensare all’esibizione alterna di un «latinorum» esoterico, buono a
mettere-in-soggezione, vero e proprio «terrorismo intellettuale» che
semina sgomento, mobilita forse, ma solo in forme di “psicosi collettive”,
che mette in uno stato di vertiginosa frustrazione e di dipendenza per
inibire immediatamene ogni fermento di autonomia, di critica, di
messa-in-comune? O si partecipa di una riduzione del pensare a
“pensiero-propaganda”, forma estrema di un pensiero ridotto a slogan da
spot pubblicitari, quale quella che trionfa, con minime eccezioni, negli
arenghi dello spettacolo “porno” del confronto pre-elettorale?
Ho pensato dunque di approfittare del gioco e delle regole per diree in
parole nude e crude una serie di cose lanciate non certo come tesi, al
limite neanche come congetture, diciamo... come “pulci nell’orecchio”
destinate alle orecchie di “addetti-ai-lavori” che non sono “studenti
della Sorbona” e neanche i loro coetanei in Italia, bensì militanti, e
anche militanti che «pensano pubblicamente». Resta, d’altra parte, che
queste cose non sarebbero in effetti ininteressanti nemmeno per i “Cari
studenti”...
Messe così “le mani avanti”, aggiungo qualche domanda che sarebbe -
ripeto- un po’ stolto liquidare come “criptica”. Concludevo la prima parte
di questa lettera, domenica, invitando a dimenticare il Novecento, a
dimenticare Seconde, Terze e anche quarte e quinte Internazionali, e anche
le ideologie di sostituzione. E’ possibile? Prima di dire come, e in che
direzione, conviene dire che la peggiore delle superstizioni sarebbe
ritenerlo fatalmente impossibile. Mai dire mai... Bisognerebbe pensare una
articolazione duale.
1. L’istanza immanente, che Marx aveva chiamato «comunismo critico»,
vederla come esodo, come qualcosa che non ha un inizio peraltro sempre
differito, che prima non c’è poi c’è poi magari muore. Vederlo invece come
movimento (diciamo, asintotico), significa poter dire che non è per
domani, è da oggi, qui, altrove: e al contempo, che non è che la cosa si
definisce per un (una) “fine”, «un regime, uno stato di cose da
instaurare, una formula, una ricetta, un piano di riorganizzazione della
società», come scrive Marx: e potremmo allungare, col senno di questi
anni, la lista di “ciò che non è”, che non «chiamiamo comunismo»: potremmo
aggiungere che non è un Eden, un paradiso perduto, una patria esotica
lontana, un rimpianto, un qualcosa che un qualche Dio ci aveva promesso, e
di cui siamo stati proditoriamente defraudati... Non è un’utopia, una
identità, un patrimonio, cioé qualcosa di “proprietario”... Si potrebbe
dirlo un movimento “asintotico”, e un’ «idea direttrice» come definisce
Foucault, per esempio, l’abolizionismo carcerario. Potremmo pensarlo come
una facoltà, un fare: in questo senso, da qui e ora, e senza possibili
atti di nascita, copyright, certificati di decesso...
2. Poi c’è la vita materiale, le condizioni dell’esistere, le
“infrastrutture contestuali del vivere”. Ecco, lì si dovrebbe essere
aperti al coro - plurale, come la biodiversità... - delle forme, dei modi
d’azione, delle resistenze e delle offensive e controffensive, degli
obiettivi, delle sperimentazioni, e anche inevitabilmente attenti al non
eludibile rapporto di forza. L’articolazione di questa “dualità” non è
quella fra uovo oggi e gallina domani. Non quella tra cosiddetto
“pragmatismo”, terreno difensivo, “sindacalistico” e piano cosiddetto
nobile, e al contempo sempre differito, sfuggente, inafferrabile, della
“rivoluzionarietà possibile”...
Né quello tra “il pane” e “le rose”. Pensare un orizzonte di
fuoriuscita radicale dalle logiche costitutive di questo mondo, è anche
l’unica scommessa possibile per sfuggire a quella che - e pazienza se può
sembrare “apocalittismo” - a me sembra un fine corsa senza scampo verso
uno “sfacelo mentale”, sentimentale, etico... diciamo, antropologico.
Perché se è vero come è vero che ciò che si chiama “la Storia” è un lungo
fiume di sangue appena interrotto qua e là, è anche vero che questo era
bensì atroce, ma (faccio qui volutamente il cinico a fini euristici...)
“allora” ognuno sapeva solo delle sue sofferenze, e di quelle del suo
prossimo locale...
Oggi, la forma stessa di questo capitalismo (che è stato definito come
“cognitivo”, e che per parte nostra diremmo: “sistema
capitalistico-statale integrato, biopolitico, illusionistico, tossicomane,
psicosomatico, criminogeno/penale...) comporta il fatto che l’orrore
universale è - in tempo reale, con un andirivieni tra sguardo d’insieme e
dettaglio, fino al “singolare” e all’attimale - sotto-gli-occhi-di-tutti!
Ciò che è inedito, e di cui non si possono calcolare le conseguenze a
catena, in reazione a catena, è che “tutto” - una Babele infinita di
“locali”, di lingue, “valori”, criteri, pesi, misure, memorie - è
compresente sullo stesso palcoscenico; e che in più sono compresenti
passati, futuri, “remake”, ibridi... Nuovo, inedito, sconosciuto, è che si
è scatenata una competizione a morte fra tutti e tutti, fra ciascuno e
ciascuno, per dimostrare che il suo Esperanto personale, la sua aritmetica
privata.... la sua legittimità assoluta (di vittima innocente etc.)
dev’essere “universalmente” riconosciuta.
E questa competizione a morte, al contempo e paradossalmente, rende
tutti uguali come l’Unico in serie (produzione di serie di “unicità”
esclusive...., di Totalità, di Assoluti..., che omologa ferocemente,
rendendo tutti dipendenti come tossici da uno stesso Moloch), e spinge
d’altra parte ad una volizione di annientamento di ogni altro
“concorrente”. Le due cose sono direttamente proporzionali, facce dello
stesso processo. Il piano del “fare comune autonomia” non può dunque darsi
che come esodo: e quello preliminare, prioritario (e anche più fattibile)
è cominciare a chiamarsi fuori da questa corsa. Forse potremo pensare che
c’è scampo (e lavorare per questo) il giorno che uno dei soggetti
sottoposti, sopraffatti, sommersi, a chi gli chiede: «Cosa vuoi, implori,
reclami, desideri?» - risponderà, come si narra di Diogene ad Alessandro
Magno: «Nulla. Che ti levi dalla vista poichè mi copri il sole».
Che un soggetto dica, risponda: «Non reclamo da alcuno e men che mai
dalla legalità dello Stato alcun riconoscimento. Alcuna “giustizia” in
nome e per conto mio. Non c’è alcun “Altare” di alcuna “patria”, alcuna
medaglia che possa interessare noi altri, visto che non abbiamo in comune
alcuna lingua». Che alle profferte di quel tipo si risponda, come il
Bartheleby di Melville, «I prefer not to». Semmai - questo, piuttosto, sì
- aggiungendo «Sciur padrun da li beli braghi bianchi, föra li palanchi,
fora li palanchi!» Detto in napoletano: «Posa e sord..». Ecco, solo di
questo possiamo discutere. Solo questo ci attendiamo eventualmente da voi,
e vi reclamiamo... Su questo, la discussione ricomincia. C’è un lungo
elenco da tener presente: precarietà, migranza, specificità dei soggetti
più assoggettati alle forme più estreme di quella volizione di
possesso/distruzione che è la logica del sistema…E giusto che ci siamo, ci
piacerebbe - ma siamo costretti a rinviarlo ad una prossima volta - dire
due parole su quello che nel frattempo (mentre gli studenti francesi,
cacciati ormai dalla Sorbona, si scontravano con lo Stato di polizia di
Sarkozy e di De Villepin per le strade di Parigi) accadeva per quelle di
Milano… Il 7 aprile è in uscita “Vademecum” (soliloqui dialoghi canti e
controcanti) edizioni immaginapoli a cura di José Mazzei e Ugo Tassinari,
postfazione di Paolo Persichetti”
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