Partito della Rifondazione Comunista 

Circolo "Peppino Impastato " Partinico 

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Partito della Rifondazione Comunista di Partinico (PA) circolo "Peppino Impastato"

Introduzione di Fausto Bertinotti 

Una premessa politica

Da un pezzo, nel nostro paese, Karl Marx  non è più “di moda”. In altri luoghi del mondo – nelle Università degli Stati uniti d’America, per esempio – lo si legge e lo si studia, come un punto di riferimento e di confronto ineludibile, rispetto all’analisi dei processi sociali. In Francia, a Parigi, si continua ad organizzare ogni anno un convegno di aggiornamento marxiano, al quale partecipano intellettuali di rango di tutte le provienienze, e di molte scuole. In Italia non è così, e per ragioni che hanno prima di tutto a che fare con il travaglio politico della sinistra moderata, avviato negli anni ’80, culminato nello scioglimento del Pci, proseguito nelle difficoltà – a tutt’oggi irrisolte – di  dar vita ad un nuovo soggetto riformista. Nell’ansia di “modernizzazione”, ma anche di nuova legittimazione occidentale, che ha caratterizzato gli ultimi due decenni,  il marxismo è stato così derubricato alla condizione di “dottrina obsoleta”, sostanzialmente ottocentesca e non più utile alla comprensione del capitalismo del XXIesimo secolo. Un processo avallato non solo dalla destra, ma, appunto, anche  dalla parte maggioritaria dell’intellettualità di sinistra (almeno quella che “fa opinione” ed ha presenza mediatica). Una rimozione  che, dall’89 in poi, è apparsa confermata dai fatti: il tragico fallimento del cosiddetto socialismo reale, prima, e l’insorgere di quella “nuova rivoluzione capitalistica”, che si può diversamente nominare e analizzare, ma che in ogni caso ha aperto, su scala mondiale, un nuovo ciclo dell’economia e della produzione. Il capitalismo neoliberista, apparso così trionfante da aver prodotto, alla fine del secolo scorso, l’ideologia del pensiero unico.
Eppure, proprio all’alba del XXI secolo  la rinascita dei movimenti – in Italia da Genova 2001 in poi – ha spezzato questo clima, mettendo in radicale discussione proprio la fiducia nel sistema e nella sua pretesa di rappresentare l’approdo “definitivo” dell’umanità. E’ ben vero che la protesta altermondialista non ha prodotto la riscoperta di Marx (o la rilettura collettiva dei classici del movimento operaio), com’era avvenuto nel ’68 e, sia pure in termini molto più parziali, alla fine degli anni ’70. E che essa si è presentata sulla scena del mondo in netta soluzione di continuità con il passato – comprese le ideologie legate alla storia del ‘900 e del movimento operaio. Ma è vero anche, se non soprattutto, che essa ha assunto, rielaborandolo in forme del tutto autonome e originali, quel “deposito” di cultura critica, di antagonismo, di anticapitalismo, che il movimento operaio ha disseminato per quasi due secoli. Quell’humus, quell’onda lunga, quel patrimonio pur oggi spesso sommerso e disperso di soggettività altra che nessuna sconfitta ha potuto cancellare dalla scena della storia. E dunque? Dunque, anche se i giovani alternativi di Porto Alegre, i dalit di Mombay, i pacifisti senza se e senza ma di tutto il pianeta non sono corsi a rileggere testi come il “Capitale” o “Il Manifesto”,  sono proprio loro che hanno ricominciato a (ri)scriverli.

Tornare a Marx: perché?

Proprio questo esplosivo avvio del XXI secolo, dove la catastrofe convive con nuove possibilità di liberazione umana,  conferma la nostra più antica persuasione: Karl Marx non è, nient’affatto, un “cane morto”. Anzi, a dispetto di tutte le mode e di tante cecità,  è essenziale “ritornare a Marx” per riscoprirne la fecondità. Ovvero, il “marxismo di Marx” -  ben di più dei numerosi “marxismi” che si sono succeduti nel secolo scorso –  a noi pare vivo e attuale: il marxismo non certo inteso come un sistema di verità o di dogmi (sulle quali sarebbe comunque calato oltre un secolo e mezzo di enormi mutazioni sociali e politiche), ma come strumento di lettura delle contraddizioni fondamentali del capitalismo del nostro tempo. Non stiamo riferendoci, ancorché su basi “filologicamente” fondate, solo alla categoria della capacità di previsione: il Marx profetico, insomma, il Marx che è stato capace di cogliere lo sviluppo estremo della logica del capitale, molti decenni prima che questa logica divenisse visibile o, addirittura, si dispiegasse in termini clamorosi (la globalizzazione capitalistica), non è ancora il Marx politico di cui avvertiamo la necessità. Perché allora ha senso questo “ritorno”?
Forse, la risposta piu’ persuasiva è anche la piu’ “semplice”: si puo’ (si deve) tornare a Marx perché la sua elaborazione teorico-politica costituisce il punto piu’ alto della critica dell’economia politica. E la critica dell’economia politica, cioè del capitalismo, è precisamente il lavoro rivoluzionario che spetta al nostro tempo: se è vero, come a noi pare vero, che questo modo di produzione è oggi incapace di  coniugare progresso (l’incredibile progresso scientifico e tecnologico di questi anni) e benessere sociale. E’ “modernizzazione senza modernità”. E’ di nuovo guerra – guerra come dottrina “preventiva” e pratica strategica permanente e infinita, che si sostituisce alla politica e alimenta\viene alimentata dal suo “fratello gemello”, il  terrorismo. Il mondo di oggi è più vicino alla barbarie di quanto forse non sia mai stato nella storia recente: ecco perché nessuna sinistra degna di questo nome può prescindere dalla lezione di Marx. Come egli ebbe a scrivere, il capitalismo rappresenta sì per l’umanità l’”uscita dalla preistoria” – ma la “storia” reale potrà cominciare, potrà essere scritta,  soltanto alla condizione di  andare oltre la logica del sistema, lo sfruttamento del lavoro e l’alienazione umana. In questo senso, il pensiero di Marx resta la teoria piu’ radicale - ispirata alla categoria massima della politica, che è la rottura rivoluzionaria, secondo Franco Rodano - che il movimento operaio abbia saputo esprimere nella sua storia piu’ che secolare.

“La storia di ogni società esistita fino a questo momento...”

Rispetto alla radicalità politica della Critica del Programma di Gotha, alla potenza disvelatrice della Questione ebraica, alla straordinaria modernità (ipermodernità) dei Grundrisse, il Manifesto si presenta oggi - si presentava ieri - come un testo “circoscritto”. Un libro molto legato al clima delle rivoluzioni del 1848 ed alla necessità di popolarizzare un programma relativamente contingente. Eppure, queste 23 pagine a stampa, catalogabili nel genere della “divulgazione” e della “propaganda”, hanno acquistato nel tempo lo statuto che spetta non solo ai grandi classici, ma ai libri archetipi: quelle opere che hanno esercitato un’influenza determinante nella storia della civiltà umana, come la Lettera ai romani di Paolo di Tarso, il Contratto sociale di Rousseau, L’origine della specie di Darwin (queste ultime, insieme al Manifesto, ha scritto lo storico inglese A. N. Wilson, “si ritiene abbiano cambiato il modo in cui gli uomini guardano a se stessi”).
Certamente, la forza di questo testo sta soprattutto nell’analisi, a cominciare dalla potenza sovversiva del suo incipit: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi” è una scoperta teorica di portata gigantesca, espressa con tale efficacia sintetica da produrre, anche, una delle frasi piu’ “belle” che siano mai state scritte. In questo improvvisa, abbagliante Aufklaerung (Rischiaramento), si fa giustizia di ogni concezione idealistica, o sociologistica, o spiritualizzante della storia - tanto è vero che l’intero corpus della ricerca che andrà, da quel momento in poi, sotto il nome di “scienze umane”, non potrà non tenerne conto, e non potrà in nessun caso evitare il confronto con questa enunciazione. In essa ci sono le ragioni di una nuova presenza, di un nuovo accesso alla grande scena della storia: quello del proletariato, non piu’ una classe subalterna e oppressa tra le classi oppresse e subalterne, ma la nascita di un nuovo protagonista della modernità. E c’è la carta di identità di un nuovo soggetto, attraverso il quale l’immagine dello spettro - lo spettro del comunismo - di colpo si materializza, si sostanzia di corposità sociale, si prospetta come una concreta chance della politica. Essa, in un secolo e mezzo, ha percorso un lungo e non lineare cammino, costellato anche di molti esiti tragici. Ma non ha perduto la sua verità.

Vecchio e nuovo proletariato

Ma può essere ancora oggi il proletariato – la classe operaia dell’industria - il soggetto centrale della trasformazione? Non è nel frattempo intervenuto un processo di drastica riduzione, anche fisica, dei lavoratori e degli operai manuali? Non è in crisi, soprattutto in Italia, ma anche negli altri paesi avanzati, la grande industria che si “incaricava” di concentrare e – quasi - di unificare il suo antagonista operaio? Questi interrrogativi, che corrono da anni nel dibattito politico e teorico della sinistra, non possono essere elusi, neppure nel breve spazio di questo scritto
.In prima istanza, è vero, queste domande muovono da una visione edulcorata delle contraddizioni sociali, da una vocazione interclassista, talora da un frettoloso e superficiale “nuovismo”. Non è casuale, del resto, che tutti i certificati variamente rilasciati di “morte presunta” di Marx e del marxismo siano sempre stati organicamente connessi con una dichiarazione parallela di “morte della classe operaia”, ora nei termini della sua scomparsa, perfino fisica, ora in quelli, solo un poco piu’ sfumati, della “fine della centralità operaia”, ora in quelli, ancora piu’ teorici, dell’esaurimento della contraddizione - strategica e strutturale, s’intende, ma anche culturale e civile  - tra capitale e lavoro.  Da questo punto di vista, si può replicare che, sulla scala del mondo, il lavoro operaio nel senso stretto del termine si è accresciuto, si sta accrescendo, anche dal punto di vista quantitativo. Non  è ”evaporato”, il fantasma operaio, rispetto al piccolo “spicchio” di Europa che Marx aveva di fronte a sé quando scriveva il “Manifesto”: al contrario, dalla classe operaia della Gran Bretagna, della Francia e della Germania, siamo passati al ben più esteso proletariato, anche industriale, del pianeta. Il fantasma, dunque, resta corposo, anche nella sua dimensione materiale. L’ideologia ancor oggi molto accreditata della “fine del lavoro” (così come nei ’60 le tesi sociologiche sull’inevitabile destino di integrazione della classe operaia) si rivela così soprattutto un’ideologia – nel senso che Marx spesso usa di “falsa coscienza”.
In seconda istanza, tuttavia, dobbiamo sapere che queste obiezioni colgono (sia pur travisandolo) un punto molto rilevante: il grande mutamento intervenuto nella composizione sociale e di classe, nella figura del lavoratore, nella stessa funzione del lavoro. Un processo in virtù del quale lo sfruttamento (l’estrazione del plusvalore) non si produce più né soltanto né prevalentemente all’interno del processo produttivo, ma si allarga all’insieme della società. Marx descriverà questa tendenza in alcune celebri pagine di quella straordinaria mole di appunti preparatori al “Capitale”, poi conosciuta (e pubblicata solo a metà del secolo scorso) come “Lineamenti fondamentali (Grundrisse) della critica dell’economia politica”:  da un certo livello di sviluppo in poi, la logica del capitale sussume sempre di più “l’uomo stesso” come capitale fisso e come fonte della ricchezza. Non il singolo produttore, “non il lavoro immediato eseguito dall’uomo stesso”,  ma la produttività generale del “corpo sociale” –  il patrimonio produttivo di scienza e conoscenza, lo sfruttamento della natura, il dominio (“il furto”) crescente del tempo di vita. Una contraddizione che non può risolversi all’interno della logica del sistema. Non la vediamo sotto i nostri occhi, ogni giorno? Non è anche questa la radice dei processi oggi galoppanti di precarietà e flessibilità, nei quali la “disponibilità” del lavoratore (del suo tempo) diventa la chiave di volta dell’economia? E non è questo che spiega la ragione di quell’apparente “evaporazione” del fantasma operaio? Da questo punto di vista, il proletariato del mondo attuale è immenso, infinitamente più esteso di quello che Marx descriveva nel “Manifesto”: è composto dalla maggioranza dei lavoratori, e forse perfino dell’umanità. Ma è un soggetto frammentato, disperso, non più unificato dalla “macchina” capitalistica, come accadeva nel ciclo fordista e taylorista – spesso invisibile a se stesso. La ricomposizione del nuovo proletariato è dunque il nostro compito strategico. Il più improbo, e il più necessario.

La mondializzazione

Proprio nel Manifesto, Marx preconizza quella sorta di sviluppo prometeico della borghesia, nonché quei processi di tendenziale unificazione del mercato mondiale  e di interdipendenza economica internazionale, che, qualche decennio piu’ tardi, verranno analizzati sotto il nome di globalizzazione. Vi sono, in questo senso, alcuni passaggi che mantengono, a un secolo e mezzo di distanza, un suono profetico: “Il bisogno di uno smercio sempre piu’ esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. ....Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte e vengono distrutte ogni giorno...soppiantate da industrie nuove....che non lavorano piu’ soltanto materie prime del luogo, ma delle zone piu’ remote...All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni”. Ma piu’ in generale, è la funzione rivoluzionaria della borghesia che viene descritta nella sua straordinaria potenza nonché nei suoi effetti devastanti: quella borghesia che “ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoista i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea”; quella borghesia che tutto riduce a “un puro rapporto di denaro”, compresi i sacri affetti familiari; quella borghesia che “ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi”. Non c’è narrazione piu’ sintetica ed efficace di cio’ che abbiamo chiamato modernità: la nascita del rapporto di capitale come condizione di una nuova fase della storia umana, nel corso della quale “si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi”, mutano in profondità le stesse nozioni di tempo e di spazio, muta radicalmente il rapporto con la tradizione e la formazione delle idee (“tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare”). In breve: per la prima volta, nei secoli, l’umanità puo’ pensare di costruire da protagonista il proprio destino. Gli uomini “sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato” a se stessi, alla propria collocazione nel mondo, alle proprie relazioni - gli uomini in carne ed ossa, divisi in due classi radicalmente antagoniste, che si estendono, come tali, al teatro del mondo.
Non c’è, nel Manifesto, alcun limite - concettuale - di tipo nazionale, locale, provinciale: ecco un altro tratto distintivo della sua modernità. C’è la “disponibilità” del pianeta, in quanto tale, all’espansione del movimento del capitale: ecco il limite della “profezia” marxiana della globalizzazione, quale nel libro è prospettata. Giacchè, in un senso preciso, in questa proiezione del futuro prossimo del capitalismo Marx applica uno schema seccamente lineare, che nel corso dei due secoli successivi si è rivelato assai diverso - anche e soprattutto in virtu’ di quel meccanismo di dominio internazionale e di blocco dello sviluppo in una parte consistente del pianeta che si è chiamato imperialismo. E oggi l’unità apparente del mondo nasconde la crescita dirompente della divisione tra Nord e Sud - anzi, tra i molti Nord e i molti Sud che compongono la nuova geografia mondiale disegnata dai colpi del neoliberismo: se è dunque lecito parlare di mondializzazione della produzione, non è lecito in nessun caso parlare di mondializzazione dei consumi, in una fase caratterizzata dalla polarizzazione crescente della ricchezza come della povertà.
In sostanza, ritorna una aporia culturale e politica che non riguarda principalmente Marx, ma noi, la sinistra del prossimo millennio. Questa aporia ha al suo centro la nozione, appunto, di modernità: per circa un secolo e mezzo, essa è andata di concerto con lo sviluppo della borghesia, e della lotta di classe che al dominio borghese è stata opposta, nelle piu’ diverse modalità di conflitto, di protesta, di vera e propria lotta politica, fino alle rotture rivoluzionarie e statuali. Modernità e borghesia sono state, nella sostanza, coincidenti, e il loro parallelo (e ovviamente anche dialettico) processo di sviluppo ha quasi sempre costituito - ri-costituito - un quadro di rapporti, un equilibrio di base piu’ avanzato - piu’ favorevole, rispetto al nostro endziel, la meta finale della nostra lotta, come usava dire Rosa Luxemburg. Oggi, questa coincidenza va spezzandosi, forse definitivamente. La globalizzazione produttiva, comunque la si intenda e la si analizzi, non costituisce un “progresso oggettivo” né allarga lo scenario possibile della nostra lotta. E la così detta “III Rivoluzione industriale” tende a inghiottire la modernità nei flutti di una autentica regressione sociale, politica, civile. Questa realtà ci costringe a fare i conti, ben piu’ di quanto il movimento operaio non abbia mai fatto, con la “logica della dinamica storica”, con l’idea di “leggi della storia” che, pur estranee a Marx, non sono certo state estranee a decenni di marxismo.

Marx profeta negativo?

Appunto, torniamo a Marx: “...lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”. In questo passaggio, che si trova proprio agli inizi del Manifesto, Marx enuncia in termini sintetici ma inequivocabili la possibilità della sconfitta - sconfitta che, se ci sarà,  non sarà solo di una classe, del proletariato, ma dell’intera società moderna. Eppure, nella storia successiva e nella vulgata marxista, ha prevalso una “filosofia della storia”, spesso in forma di vera e propria scolastica: essa, attraverso la sequenza dei diversi modi di produzione (antico, asiatico, feudale e borghese) che si succedono nella storia, ha prefigurato un’idea di  progresso lineare che non potrà che esser coronato dal socialismo e dalla vittoria del proletariato. Un’idea sostanzialmente estranea a Marx (compreso il celebre schizzo di autobiografia intellettuale contenuto nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), ma, invece, fortemente radicata nel socialismo della II Internazionale prima, nell’esperienza della III Internazionale poi. Una caduta di segno positivistico e scientista, che ha alimentato altresì quella cultura industrialistica e “sviluppistica” - ispirata in sostanza dalla bontà, comunque, della crescita quantitativa - che tanti ritardi ha prodotto anche a sinistra, in particolare nel rapporto con le istanze ambientaliste e nel confronto con la nozione stessa di “limite”.
Invece, nella partita della “fine della preistoria” e dell’”avvento della storia”, bisogna prevedere anche la possibilità della sconfitta. Il socialismo non è un approdo necessitato della storia: è l’unica chance, certo, di salvezza, non solo per le classi oppresse, ma per la civiltà detta moderna. Ma è soprattutto l’esito possibile di una lunga lotta rivoluzionaria, che, per vincere, non puo’ dunque affidarsi né ad attese messianiche né alla catastrofe spontanea, lo Zusammenbruch, del sistema capitalistico, né all’”oggettivo dispiegamento” delle contraddizioni sociali, politiche o interstatuali (produttrici, queste ultime, di guerre prima che di rivoluzioni). Si radica qui un’idea della trasformazione che non puo’ che essere radicale: il socialismo non puo’ “ereditare” lo sviluppo economico, così come esso è stato determinato e orientato dal moderno movimento del capitale, per gestirlo politicamente con altre modalità; il socialismo, altresì, non può scaturire da una progressione delle coscienze, da una organizzazione della soggettività, che asseconda la spontaneità sociale e la indirizza verso altri fini e interessi. In breve: il socialismo - la possibilità che ci è ancora ci è data di evitare la “comune rovina delle classi in lotta” - non è un mutamento, piu’ o meno traumatico, di classi dirigenti, ma un progetto di costruzione di un altro sviluppo, di un’altra modalità di organizzazione dell’economia, di un’altra configurazione delle relazioni tra gli individui, i sessi, le persone, i popoli.
E proprio l’avvertenza di Marx si propone oggi per uno straordinario confronto con i processi attuali. Non parliamo, naturalmente, delle sconfitte che il movimento operaio e i comunisti hanno subito in questo secolo e mezzo, e in specie alla fine dell’ultimo. L’attualità dell’ipotesi di sconfitta - non sembri un paradosso - sta principalmente nella dinamica attuale del capitalismo: se, nel corso del XX secolo, esso ha rovesciato le sue contraddizioni addosso al mondo nella forma della guerra planetaria e della minaccia della catastrofe nucleare, esso, alle soglie del XXI, esprime le sue pulsioni distruttive nella forma privilegiata della devastazione sociale di massa - strage di popoli, distruzione del lavoro, disoccupazione strutturale e ipersfruttamento. Il neoliberismo, da questo punto di vista, non è un incidente di percorso, e non è neppure la provvisoria rinuncia, per assenza di margini “oggettivi”, a politiche di tipo riformista: è la manifestazione storica dei limiti strategici raggiunti dal capitalismo, cioè di quella rottura tra crescita economica e modernità che “fatalmente” deriva dalla riduzione dei rapporti umani a rapporto di danaro, alle “gelide acque del calcolo egoista”. Per la prima volta da molti decenni a questa parte, la modernizzazione si sviluppa versus la modernità, non insieme ad essa:  straordinariamente indicativa, in proposito, è  l’aggressività della campagna politica e culturale contro la libertà delle donne, portata avanti dalle gerarchie ecclesiastiche (ma non solo) in una logica restaurativa del dominio patriarcale e sessista. In realtà, la “rivoluzione femminile” in atto non può che scontrarsi – per usare una terminologia marxiana – con gli attuali rapporti di produzione:  proprio poiché tende ad oltrepassarli, viene fatta oggetto di un’ondata regressiva, “premoderna”, oscurantista. Ma non è questo un limite storico della logica del capitale?

Conclusione

Il Manifesto non è soltanto il piu’ bel testo politico che sia mai stato scritto: è un libro essenziale da (e per) traghettare nel XXI secolo. Il suo celebre motto conclusivo, Proletari di tutti i paesi, unitevi!, mantiene intatta la sua forza ben al di là della suggestione emotiva e storico-simbolica che pure legittimamente continua a suscitare. Esso ha alluso ieri, e continua ad alludere per il prossimo futuro, alla sfida decisiva nella quale la sinistra antagonista deve cimentarsi: la costruzione del nuovo soggetto della trasformazione anticapitalista, la ricomposizione di classe, la comunicazione attiva dei diversi soggetti che potranno concorrere all’alternativa antiliberista. Come ieri, ancor piu’ oggi e domani, il luogo di questa lotta è la platea del mondo. Un mondo, appunto, tutto da guadagnare. Ancora.