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Facciamo
Giovanni Pesce "Visone" senatore a vita
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E' un libro di storia questa
biografia del comandante partigiano Giovanni Pesce. A lui la
Repubblica italiana deve qualcosa di più prezioso della medaglia
d'oro al valor militare
Bisogna leggerlo questo libro: "Giovanni Pesce
"Visone", un comunista che ha fatto l'Italia",
intervistato da Giannantoni e Paolucci (Edizioni
Arterigere-EsseZeta, euro 14).
La biografia di Pesce è un libro di storia: Pesce non può
raccontare sé stesso se non come elemento di una vicenda
collettiva, di speranza, di delusione, di partecipazione alla
trasformazione dell'Italia.
Nella prima parte del libro, la guerra di Spagna e la seconda
guerra mondiale, hanno un peso rilevante. Non sono d'altra parte,
eventi decisivi nella formazione del protagonista?
Protagonista suo malgrado, perché anche queste pagine sono piene
di uomini: combattenti antifascisti, aguzzini, delatori, staffette
partigiane, leader dai nomi che si ritrovano nei manuali di storia
e tanti, tanti caduti, assassinati, torturati, suicidi per non
parlare. Persone con le quali Pesce stabilisce rapporti profondi o
fugaci, della durata magari di un'azione di sabotaggio sfortunata.
Pesce non celebra eroi, piuttosto dispensa critiche per una
leggerezza o giudica severamente un errore organizzativo, ma
dipinge con naturalezza uomini in lotta e sé stesso come un
superstite fortunato; dietro il velo della sobrietà però si
avvertono l'ammirazione e la pietà sconfinate verso le compagne e
i compagni decimati (tra i Gap decimare non significa uno su
dieci, ma nove su dieci).
Più che fortunato, poi, il Pesce gappista è dotato di un sangue
freddo eccezionale ed è un organizzatore meticoloso, un
perfezionista dell'azione. Mai accecato dall'odio, Pesce sa che la
sua vita e quella dei suoi compagni, o di un passante sconosciuto,
sono più preziose della morte dell'ufficiale nazista o della spia
repubblichina.
E' un uomo, Pesce, che ama la vita in tutte le sue forme malgrado
gli sia stata così dura, ama persino la vita in miniera, che ha
conosciuto poco più che bambino in Francia, perché in miniera si
sente a casa tra i suoi compagni («uomo fra gli uomini, i
migliori che avessi mai conosciuto») che provengono da tutta
Europa. E' la prima brigata internazionale, quella dei minatori de
la Grand' Combe, alla quale partecipa, giovanissimo volontario («lo
decisi non appena mi iscrissi al Partito Comunista Francese»);
molti di quei minatori sono esuli antifascisti, base naturale del
Pcf che in quel distretto minerario è presente ed organizzato.
Pesce è un figlio del secolo breve: i suoi non si sarebbero mai
conosciuti, lui piemontese lei veneta, se la prima guerra mondiale
non li avesse avvicinati. Papà socialista, mamma cattolica, un
pezzetto di Italia post-giolittiana che la miseria, la
persecuzione politica, l'assenza di prospettive spingono verso
l'emigrazione.
E' troppo piccolo, per sapere cos'è il dolore della separazione,
dovrà attendere il 1929, quando lascia Medoc, il cane pastore
compagno di un estate nel suo primo "vero" lavoro di
pastore di mucche.
Tre anni dopo è iscritto all'Associazione dei Pionieri e poi alla
Jeunesse Communiste, l'adolescente guarda alla miniera come ad un
atto di solidarietà e di iniziazione, non a caso l'ingresso in
Officina è simultaneo all'iscrizione al Partito. E nel Pcf, da
attivista superimpegnato, vive le elezioni del '35 e del '36, in
quel clima di internazionalismo antifascista che caratterizza
particolarmente le regioni di immigrazione.
Giorni di festa, gli ultimi di aprile del '36. Successo elettorale
del Pcf, vittoria del Fronte popolare, che qualche settimana dopo
lo ospita a Parigi, tra i delegati dei giovani comunisti, per
l'immensa manifestazione antifascista che vede sul palco Dolores
Ibarruri e Maurice Thorez. La decisione è presa, in Spagna si
combatte contro il fascismo, il nemico dei minatori, ed è lì che
bisogna andare a combattere.
E' in Spagna, paradossalmente, che il giovane comunista
"francese" (non parla italiano, vorrebbe combattere
assieme ai francesi) conosce l'Italia: nelle pause di guerra
studia la grammatica italiana, il Risorgimento, il fascismo. Suoi
maestri sono antifascisti italiani, parte di un elenco
straordinario di figure leggendarie che la memoria incredibile di
questo ottantasettenne fa rivivere agli occhi di un lettore
frastornato da una serie sterminata di note biografiche a piè
pagina. Quanti di questi nomi sono stati dimenticati! La storia
della più breve di quelle esistenze, è un pezzo di storia
dell'Italia e della democrazia europea!
Dura poco la pausa francese, la primavera del '40 vede il crollo
della Republique, i tedeschi dilagano, gli antifascisti vengono
arrestati in massa. Ed è quasi subito galera, poi, dopo un anno,
il confino. A Ventotene compie gli studi superiori, il corpo
insegnante è superbo: Ravera, Scoccimarro, Terracini, Curiel, tra
i tanti confinati comunisti. Tra mille espedienti per sopravvivere
e stabilire il più semplice contatto umano, si studia sul serio!
Nell'isola conosce Secchia, Longo, Di Vittorio ed una parte enorme
dei futuri gruppi dirigenti della Resistenza.
Emerge anche qui un tratto peculiare della personalità di Pesce:
il militante disciplinatissimo («il Partito ha sempre ragione»)
parla con deferenza degli "altri", i non comunisti, ma
mantiene i rapporti più affettuosi con gli "eretici"
della chiesa comunista.
Dagli scioperi del marzo '43, all'arresto di Mussolini, all'agosto
del ritorno a Visone, il paese natale, il tempo vola nel suo
ricordo. Inizia qui la parte più nota della sua storia che ha per
sfondo Torino e poi Milano.
Pesce chiarisce lucidamente le differenze enormi che corrono tra
la guerra per bande che si conduce nelle campagne o in montagna e
l'azione militare dei Gap, che ha per teatro la città, fatta di
atti di sabotaggio pericolosissimi, di attacchi improvvisi,
condotti quasi individualmente, contro bersagli umani che si
possono guardare in faccia.
Il pudore del narratore non fa velo all'inaudita violenza che il
garibaldino di Spagna esercita su sé stesso. Notti insonni, poi
determinazione assoluta, anche perché, prima a Torino poi a
Milano, "Visone" è chiamato a riparare organizzazioni
semidistrutte dai colpi del nemico.
Può stupire che ad una domanda precise e finale, Pesce risponda
che il momento più alto della sua vita è stato la guerra di
Spagna anteponendola alla Resistenza, anteponendo cioè una
sconfitta tragica (ma le brigate internazionali sono state
sconfitte?) ad una vittoria esaltante. Anteponendo anche
l'apprendista tra tanti al protagonista della guerra in città,
dove talvolta però si sente solo. La milizia di soldato semplice
in un esercito di fratelli che parlano tante lingue diverse gli
sta più a cuore della medaglia d'oro al valor militare così
meritatamente conquistata nelle file della Resistenza.
Di straordinario interesse e illuminante è la memoria
dettagliatissima, dei primi, decisivi, duri anni del dopoguerra,
del complesso travaglio del mondo partigiano e del suo rapporto
col Pci che si va organizzando e radicando. Anche in questo caso
emergono l'equilibrio e l'autonomia critica di Pesce, d'altra
parte in quelle circostanze così difficili egli utilizzò tutto
il suo prestigio per svolgere un'opera di mediazione e di
moderazione nei confronti delle frange più insofferenti verso le
provocazioni della reazione.
Anche quando non condivide, è il caso dell'amnistia di Togliatti,
prevale la disciplina, corroborata dalla comprensione degli scopi
e da una fiducia profonda nel gruppo dirigente del Pci.
Pesce ha con la violenza, che ha tanto subito e praticato, un
rapporto esemplare, tutto politico. La guerra è finita, si apre
un nuovo terreno di confronto, democratico, presto costituzionale.
Sul culto virile e l'ostentazione delle armi, sulle tentazioni
giustiziere o sul sogno insurrezionale è drastico, che si tratti
di Seniga o della Volante rossa o dell'amico Feltrinelli. Prima
che i fatti gli diano totalmente ragione su Seniga, sbatte la
porta e lascia il suo incarico di massimo responsabile della
vigilanza del Partito.
Pesce risponde ai suoi intervistatori senza reticenze; dal suo
osservatorio milanese viene fuori una testimonianza fresca e
vivace: la rottura del '47, le elezioni del '48 e l'attentato a
Togliatti, gli anni '50 e il governo Tambroni, il movimento
studentesco, la strategia della tensione e la vicenda Feltrinelli.
Le vicissitudini politiche e personali si alternano a schizzi
incisivi di personaggi come Togliatti o a ricordi commossi come
quello dell'ultimo Amendola.
Colpisce, tra uomini così diversi per estrazione, formazione ed
anche, in qualche misura, orientamento politico, il rispetto,
direi l'ammirazione, reciproci che li fa pari. Virtù di
circostanze straordinarie vissute insieme e di quello
straordinario partito che, fino ad un certo periodo, è stato il
Pci. Allo scioglimento del quale tanti anziani compagni aderiranno
al Pds per un malinteso "senso di fedeltà ", quasi che
il nuovo Partito fosse la naturale prosecuzione del vecchio.
Pesce dà un giudizio, ancora una volta, puntuale, lucido di
quella operazione e delle sue conseguenze. Sceglie di ricominciare
da capo, con noi, con Rifondazione Comunista, perché più giovane
di tanti giovani e perché è un combattente che non sa obbedire
all'ordine di resa.
Pesce non è mai stato parlamentare, errore non irreparabile,
visti i nomi che circolano per la nomina di senatore a vita. Penso
che la Repubblica italiana gli debba ancora qualcosa di più del
prezioso riconoscimento del valor militare. E ancor di più
Rifondazione Comunista, il suo e il nostro Partito, potrebbe
lavorare per questo obiettivo raccogliendo centinaia di migliaia
di firme. Per la Resistenza, contro ogni revisionismo, il
Comandante Pesce Senatore a vita.
su Liberazione del
25/08/2005
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