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CARLO GIULIANI:

LA RIMOZIONE DI UN OMICIDIO

di Francesco Barilli di Ecomancina

***

PREMESSA

5 maggio 2003: dopo quasi due anni viene messa la parola fine alle indagini conseguenti la morte di Carlo Giuliani avvenuta il 20 luglio 2001 in Piazza Alimonda, durante le tumultuose giornate del G8 di Genova: il GIP, Dr.ssa Elena Daloiso, ha accolto la richiesta di archiviazione per legittima difesa avanzata dal PM Silvio Franz nel dicembre scorso, formulando un giudizio di assoluzione sull’operato di Mario Placanica (il carabiniere che avrebbe sparato) persino più ampio di quello del PM: il militare non solo agì per legittima difesa, ma fece legittimo uso delle armi.

Nel primo articolo da cui apprendo dell’archiviazione trovo anche una breve ricostruzione del fatto: "Giuliani, come si è visto nelle immagini girate da un videoamatore e che hanno fatto il giro del mondo, stava cercando di assalire un Defender dei carabinieri armato con un estintore. Placanica sparò con la pistola di ordinanza e il giovane rimase ucciso." (La Repubblica on line del 5 maggio 2003).

Per un attimo il tempo mi sembra si sia fermato NON alle 17,27 di quel 20 luglio, ma poche ore più tardi, quando cominciò a circolare la famosa foto della Reuters: l’ultimo istante di vita di Carlo, ripreso di schiena, l’estintore sollevato sopra la testa, mentre una mano armata di pistola spunta dal lunotto posteriore del defender dei Carabinieri.

Ripeto, mi sembra che il tempo si sia fermato. Perché da quel giorno sono spuntate decine di foto e filmati (prima e dopo lo sparo omicida), testimonianze, teorie e perizie contraddittorie… E soprattutto domande, tante domande che fecero sembrare quella prima ricostruzione parziale e incompleta, se non totalmente falsa. Torno a leggere l’articolo di Repubblica: era Carlo ad essere "armato di un estintore", e mi dico che davvero le parole possono pesare e ferire come macigni, ben più di quella pietra che (secondo la surreale ricostruzione accettata pienamente dal GIP, nonostante lo stesso PM qualche riserva sembra l’avesse avanzata) avrebbe deviato il colpo mortale.

Riprendo in mano il primo articolo che scrissi dopo la morte di Carlo: aprile 2002 e già mi ponevo tante domande sull’accaduto. Le rileggo: erano già presenti i dubbi sul numero degli occupanti la jeep o su quanti carabinieri avessero davvero sparato in Piazza Alimonda (e chi, fra questi, avesse colpito Carlo al volto), o quelli sulla reale distanza del ragazzo dalla Jeep; ritrovo le considerazioni circa il presunto stato di panico dello sparatore (il carabiniere che apre il fuoco aveva estratto la pistola ben prima che Carlo raccogliesse da terra l'estintore, impugnandola con fermezza ad altezza d’uomo, braccio ben teso e mano inclinata di lato: la posa di chi vanta una buona dimestichezza con le armi e sta prendendo la mira); ritrovo pure le domande circa l’origine della ferita rinvenuta sulla fronte di Carlo e la relazione di tale ferita con le primissime deposizioni dei funzionari delle forze dell'ordine in Piazza Alimonda, che affermarono che il giovane era morto a causa del lancio di una pietra da parte di un dimostrante…

Erano, mi sembra, domande dettate solo dal buon senso; non avevo ancora letto completamente la montagna di documenti che i bravi Arto, Franti, Gin, Lello Voce e tanti altri avevano pubblicato (ed avrebbero completato in seguito) su Indymedia, Sherwood e successivamente su Pillola Rossa. Documenti che avevano avvalorato i miei primi dubbi portandone altri; avevano confermato la sensatezza di quelle prime domande, esplicandole meglio ed integrandole con altre.

Arto, Franti, Gin, Lello Voce… Tutta gente che non ho mai conosciuto personalmente e con la quale non ho mai scambiato neppure una parola: mi sento indegno di rappresentarli tutti, qui, ma mi sembra giusto ricordarli e ringraziarli in questo lavoro, un documento che vorrebbe essere una sintesi di molti dubbi ancora irrisolti su Piazza Alimonda. Dico subito che il mio lavoro non ha la pretesa di essere "la summa" di tutto quanto è stato scritto sull’argomento: più che altro è mia intenzione fornire in un unico articolo un’analisi della maggior parte dei dubbi emersi dalla controinchiesta sui fatti di Piazza Alimonda (apparsa su molti siti internet di "contro-informazione"). Invito fin d’ora tutti quelli che volessero ulteriori approfondimenti a cercare i documenti completi della controinchiesta: sono pressochè tutti presenti su Pillola Rossa (http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/).

Questo articolo non si limita però alla riproposta di argomenti della controinchiesta, ma è integrato da considerazioni mie, volendo essere anche una risposta all’ordinanza-archiviazione della Dr.sa Daloiso, alla quale vorrei spiegare perché non ci sia proprio nulla da archiviare in quanto successo a Piazza Alimonda. Ma forse il termine corretto non è "archiviazione", ma "rimozione": rimozione di tutti i dubbi e di tutte le domande, affinchè nella memoria collettiva quanto accaduto a Piazza Alimonda il 20 luglio 2001 sia ricordato solo così: "durante un folle, insensato e violento attacco da parte di facinorosi ad una camionetta dei carabinieri un dimostrante veniva colpito, per legittima difesa, da un esponente delle forze dell’ordine". Questa ricostruzione vale solo per chi si è voluto fermare a quella famosa foto della Reuters, ritenendola il punto di arrivo di un’inchiesta talmente banale da essere già scritta. Per quelli che ritengono che quella foto abbia avuto il solo merito di spegnere sul nascere la falsa versione degli eventi (il famoso sasso che avrebbe ucciso il manifestante, nelle prime dichiarazioni dei funzionari di polizia in Piazza Alimonda) quell’immagine è stata solo un punto di partenza.

 

LE INCONGRUENZE DELLE PERIZIE

 

Viviamo in un mondo in cui l’importanza dei fatti dipende dal richiamo mediatico che questi assumono e non viceversa, come sembrerebbe logico. Anche i casi giudiziari non sfuggono a questa regola. I fatti "di sangue", poi, sembrano titillare con particolare successo la curiosità del pubblico; questo fatto ha risvolti controversi: da una parte la mole di informazioni che ci arriva è superiore a quella a cui eravamo abituati in passato, ma d’altra parte è ancora più difficile districarsi in questa melassa dove si confondono notizie reali e bufale clamorose, mentre dettagli fondamentali si perdono di fronte ad altri la cui importanza è solo apparente.

Ma una cosa è certa: il proliferare di informazioni sui fatti di sangue che colpiscono l’opinione pubblica (da Cogne alla morte della contessa Vacca Augusta, da Ilaria Alpi a Marta Russo) ha fatto affiorare anche un’altra realtà: l’importanza che rivestono, nella soluzione dei casi giudiziari, i cosiddetti "periti"; sembra quasi che oggigiorno il Giudice soccomba (per autonoma scelta cosciente o per comodo non è dato sapersi) al "sapere" dei periti, e che la scrittura della Giustizia sia ormai affidata alla fredda scienza.

Qui devo aprire una parentesi: noi italiani sembriamo particolarmente inclini al fascino del sapere. L’esperto ci affascina sempre, specie se si tratta di un "espertone", a cui siamo pronti ad affidare la risposta ad ogni domanda. Poco importa (tanto per fare un esempio) se l’Avvocato al quale ci siamo rivolti per un quesito di urbanistica sia un luminare solo nel campo civilistico: affidiamo a lui (o per meglio dire al suo "sapere", che riteniamo sterminato) la soluzione al nostro problema. Ma questo vezzo sgradevole non dovrebbe essere appannaggio ANCHE della Magistratura, che non dovrebbe avere la stessa sudditanza psicologica verso la figura "dell’espertone". Eppure sono proprio le tracce di questo malvezzo che troviamo nel caso Giuliani, in cui la "giustizia" si è affidata alla scienza in modo totalmente acritico.

Ora però mi fermo ad un’altra caratteristica che dovrebbe essere propria del perito: un distacco razionale ed emotivo dall’evento che si deve andare ad analizzare, affinchè il proprio giudizio non sia inquinato (in malafede o anche solo inconsciamente) dai propri pregiudizi. Ma nel caso Giuliani scopriamo (grazie a "Il Manifesto" del 19 marzo 2003) che il pool di esperti cui venne affidato il caso (Pietro Benedetti, esperto balistico; Nello Balossino, esperto in ricostruzioni tridimensionali al computer; Carlo Torre, medico legale) era coordinato da Paolo Romanini, uno dei massimi esperti balistici italiani nonché direttore della rivista "Tacarmi", sulla quale lo stesso Romanini aveva affrontato il caso Giuliani il 9 settembre 2001, scrivendo: "è stato ucciso da un suo coetaneo terrorizzato e ferito, mentre infieriva con inaudita violenza contro un mezzo dei Carabinieri, cercando con tutto se stesso di arrecare danno e nocumento ai militari. (...) La reazione del giovane carabiniere aveva evidenti e giustificate connotazioni difensive, ma qui la cosa si prestava allo scopo, tutto era perfetto, il frangente, gli attori e la scenografia. Così il banchetto degli avvoltoi griffati è iniziato, a cadavere caldo, con il sangue che ancora colava: finalmente un martire, un buono ucciso da squadracce repressive e violente guidate dai grandi burattinai. Finalmente uno sbirro assassino!"

Un’opinione con la quale io ovviamente non concordo. Ma non è questo il punto, come chiaramente avrete capito tutti. Il punto è che questa opinione fa dubitare della serenità e dell’indipendenza di giudizio dell’esperto, che almeno per ragioni di opportunità avrebbe dovuto rinunciare all’incarico. Ma, risponde Romanini (fonte: Il Manifesto): "Quando scrivevo quell'articolo ero in veste giornalistica, quando ricevo un incarico io assumo una veste tecnica e chiudo la porta a tutto (…) Scrivevo di difesa giustificata, ma noi abbiamo fatto solo la ricostruzione tecnica. Peraltro non ero da solo, chiesi di essere affiancato. E il discorso del sasso nasce nella parte analitica di Torre, è stato lui a tirarlo fuori, non io, e il Balossino ha poi lavorato sulle immagini".

Appare curioso il modo in cui Romanini tira in ballo la teoria del sasso/calcinaccio, scaricandone la paternità sui colleghi e quasi "chiamandosi fuori"… Ma sul corpo estraneo che avrebbe deviato la pallottola che raggiunse al volto Carlo torneremo più avanti; e questo perché i dubbi sulle perizie che hanno accompagnato l’inchiesta cominciano ben prima; cominciano da subito, con l’autopsia svolta (in modo che lo stesso PM definirà poi superficiale) dal prof. Marcello Canale. L’autopsia "dimostrerà" da subito che: Carlo fu colpito da un proiettile all’altezza dello zigomo sinistro che fuoriuscì dalla nuca; il proiettile fu mortale pressochè istantaneamente; la camionetta dei carabinieri che per due volte passò sul corpo non produsse lesioni interne rilevanti. Cito dalla sentenza del GIP, Dr.ssa Elena Daloiso sull’archiviazione del procedimento a carico di Mario Placanica: "le lesioni cranio encefaliche hanno determinato la morte del soggetto nell'arco di pochi minuti in modo diretto e conclusivo, prescindendo da qualsiasi ipotetica altra lesione presente a livello toracico addominale e dovuta a fenomeni compressivi e o contusivi da arrotamento che non hanno determinato alcuna lesione interna apprezzabile, ma solo piccole contusioni escoriate ed ecchimotiche in corrispondenza dei punti di appoggio al suolo del soggetto, lesioni di assoluta modestia dovuta all'elasticità dei tessuti e delle articolazioni propri della giovanissima età della vittima." (Qui mi concedo la prima divagazione nel campo dell’ironia: spero che tutti i giovani lettori si sentano rassicurati dalle considerazioni sull’elasticità dei loro tessuti e delle loro articolazioni, nel caso volessero prestarsi come "collaudatori passivi" delle sospensioni di una jeep…).

Non mi soffermerò troppo sui dettagli di questa autopsia; gli elementi che ne attestano la superficialità e che dimostrano quanto le "sicurezze" del medico fossero quantomeno precarie sono ormai patrimonio di tutti. Si va dalla "certezza" che il colpo di pistola fu mortale da subito (nonostante le immagini di Piazza Alimonda dimostrino il sanguinamento copioso e ritmico di Carlo GIA’ A TERRA, testimoniando attività cardiaca) all’ormai famoso frammento di proiettile che viene rilevato dalle radiografie ma non dall’autopsia (il proiettile quindi non fu trapassante, come invece sostenuto dal professor Canale), per arrivare all’assenza di lesioni interne dovute al passaggio della jeep (circostanza che fa a pugni non solo col buon senso, ma pure con alcune immagini che mostrano le gambe ed il bacino del ragazzo chiaramente disarticolati).

 

Ma veniamo ora al famoso calcinaccio che compare sulla scena delle indagini quasi un anno dopo la morte di Carlo. Per comprenderne l’importanza bisogna fare innanzitutto una considerazione: molti elementi nella ferita di Carlo tendevano a far ritenere improbabile che un proiettile del tipo in dotazione a Placanica fosse compatibile con quella ferita. L’ordinanza del GIP perlomeno ha questo merito: riassume chiaramente questi dubbi: "Carlo Giuliani morì per una ferita d'arma da fuoco alla testa e fu colpito da un solo proiettile che penetrò nell'orbita sinistra fino ad uscire dall'osso occipitale che risulta aver trattenuto, in prossimità del foro d'uscita, un frammento di camiciatura di ottone del proiettile, come emerso dalle radiografie eseguite prima dell'autopsia. Tale circostanza, unitamente alle caratteristiche dei fori di ingresso ed uscita del proiettile, ha fatto ipotizzare che il proiettile prima di colpire il volto di Carlo Giuliani, abbia incontrato un ostacolo che lo ha deformato modificandone la traiettoria. La ferita di ingresso presenta infatti una forma molto irregolare ed il foro di uscita è di dimensioni ridotte, come quelle solitamente prodotte da proiettili la cui energia sia stata diminuita o che si siano già frammentati. Il rallentamento del proiettile con conseguente perdita di energia non è compatibile con le caratteristiche di quello che era in dotazione alla pistola di Mario Placanica e che ha attinto il volto di Giuliani. Si trattava infatti di un proiettile blindato cal.9 esploso da una cartuccia parabellum e dunque di particolare potenza, che ha attraversato ossa di consistenza modesta (…) Tali osservazioni avvalorano l'ipotesi che il proiettile, prima di penetrare nel volto di Carlo Giuliani, ha incontrato un bersaglio intermedio che ne ha ridotto la velocità, danneggiandone la camiciatura ed esponendone il nucleo di piombo (…)"

In altre parole: il foro d’entrata è piccolo e quello d'uscita ancora più piccolo, caratteristiche queste incompatibili con i danni che dovrebbe produrre un proiettile 9 mm NATO. Una spiegazione per gli anomali effetti del proiettile potrebbe essere la sua "frammentazione", ma tutti i periti concordano sul fatto che un proiettile di questa potenza non può essersi frammentato per il solo impatto con la vittima. I consulenti del PM deducono che il proiettile si è frantumato incontrando qualcosa nel suo percorso. Dopo aver pensato all'estintore, propendono per un calcinaccio che appare nel filmato dell'operatore di Luna rossa. L’ipotesi del calcinaccio viene avvalorata (sempre secondo i consulenti del PM) in occasione di analisi compiute sul passamontagna di Carlo (ad un anno di distanza dai fatti…). E’ in questo momento che "compare" un frammento di ogiva (scuotendo il passamontagna) e compaiono pure tracce di sostanze in uso nell’edilizia. Questa circostanza mi lascia molto perplesso. Non vanto competenze in materia, per cui non so quanto rilevanti possano essere le mie osservazioni, ma Carlo sicuramente si era toccato il passamontagna nei minuti precedenti lo sparo, con mani che avevano toccato sassi o calcinacci; dopo essere stato colpito rotola a terra; poi viene trascinato da alcuni manifestanti; il passamontagna gli viene tolto ed arrotolato sotto la testa, a contatto con l’asfalto… E MESI DOPO i periti analizzano il passamontagna, dicono "ma toh guarda" e la loro ricerca prende una direzione ormai segnata…

Quella del calcinaccio è una storia molto strana anche per la sicurezza che determina nel collegio peritale incaricato dal PM… nonostante gli stessi periti non riescano a vederlo nei momenti cruciali! Infatti il calcinaccio è oggetto di pure e semplici ipotesi: al momento dello sparo "… in modo quasi istantaneo il calcinaccio, fuori dall’inquadratura della telecamera, viene colpito (…) il calcinaccio colpito è ancora esterno all’area di visualizzazione della telecamera (…) il calcinaccio entra nell’area di ripresa della telecamera ed è interessato dal fenomeno di disaggregazione che però è confinato nella parte non visibile…".

Vorrei infine far notare che, nonostante esistano decine di foto e diversi filmati di Piazza Alimonda, né il PM né il GIP hanno cercato di rintracciare il manifestante che lanciò QUEL "sasso". Considerato che nel brevissimo lasso di tempo che trascorre tra il momento in cui Carlo afferra l’estintore ed il primo sparo viene lanciato CON QUELLA DIREZIONE un solo oggetto (sasso o calcinaccio che sia, che vada ad infrangersi poco sopra la seconda "I" della scritta "carabinieri" o che impatti il proiettile in questo momento poco conta) un tentativo in questo senso mi sarebbe sembrato doveroso. Questo anche perché "incrociando" la famosa foto di Marco D’Auria (l’unica laterale, dove si scorge Carlo a più di 3 metri dalla jeep) con i filmati (e considerato che la foto precede di pochi centesimi di secondo lo sparo) risulta evidente UN SOLO manifestante che sta per lanciare un sasso: si tratta del ragazzo col codino e felpa blu appena a sinistra del cerchio che inquadra Carlo nell’immagine:

 

 

Ma il sasso-calcinaccio sarà oggetto di altre mie osservazioni, quando cercherò di relazionare la presunta deviazione del proiettile con la distanza di Carlo dalla jeep, utilizzando elementi che, a mio avviso, rendono questa teoria pura fantascienza. Per ora, indipendentemente dalle altre valutazioni che renderebbero necessario il dibattimento, è secondo me indispensabile far notare che la richiesta di archiviazione avanzata dal PM ("figlia", per così dire, delle perizie di cui abbiamo parlato) è palesemente infarcita da pure e semplici congetture. L’intero documento è zeppo di "ipotesi più compatibili", "deduzioni" e, in sostanza, dell’ammissione dell’impossibilità di ricostruire con certezza la dinamica degli eventi. Nonostante questo, quella che viene proposta (e poi accettata nell’archiviazione vera e propria) è "la ricostruzione più convincente"…

 

L’ORDINANZA DEL GIP DALOISO

 

Non si può dire che la morte di Carlo Giuliani sia stata liquidata in due righe: Il GIP Elena Daloiso, che ha messo la parola fine a quasi due anni d’indagini, impiega 48 pagine per giustificare l’operato di Mario Placanica, parlando non solo di legittima difesa ma anche (cosa forse ancora più preoccupante) di uso legittimo delle armi.

Ma cambia qualcosa l’utilizzo di 48 pagine rispetto a due righe nel liquidare la morte di un ragazzo? Certo, si può pensare che quelle 48 pagine testimonino perlomeno un giudizio più approfondito rispetto alle frettolose assoluzioni che già nell’immediatezza dei fatti erano state formulate. Ricordo che già poco dopo la tragedia molti politici (a memoria cito Cossiga, Scajola, Fini) avevano parlato di legittima difesa. Il comandante generale dei carabinieri, Sergio Siracusa, alla Commissione Parlamentare d’inchiesta aveva dichiarato: "Anche un carabiniere più esperto avrebbe sparato: quando si tratta di casi di legittima difesa in condizioni così estreme, non mi pare bello fare queste distinzioni". Lo stesso documento finale della Commissione sintetizza l’episodio in questo modo: "Il Placanica estraeva la pistola d'ordinanza ed esplodeva un colpo che uccideva il giovane Carlo Giuliani nell'atto di scagliargli contro un estintore".

Già: una delle polemiche più frequenti che anima le cronache politiche degli ultimi anni riguarda la presunta ingerenza della Magistratura nella vita politica del Paese, ma nessuno sembra rimanere sorpreso quando i nostri politici addirittura anticipano i risultati di lunghi mesi di indagini, confezionando una sentenza "già pronta per l’uso"… Ma questa è una considerazione accademica, che in fondo si riallaccia alle considerazioni iniziali, alla triste consapevolezza che oggi, grazie alla sentenza del GIP, Piazza Alimonda sarà ricordata così: un giovane di 23 anni che tenta di assaltare una camionetta dei carabinieri, con intenti sicuramente offensivi e forse omicidi, "costringendo" un giovane militare a sparare per difendere l’incolumità propria e dei commilitoni…

Ho letto le 48 pagine scritte dalla Dr.sa Daloiso con la speranza di non trovare la semplice acquisizione di una teoria confezionata già poche ore dopo l’evento. Purtroppo le mie speranze sono andate deluse: la "confezione" è diversa, sicuramente più accurata e meno frettolosa, ma il lavoro del GIP resta deludente. Vediamo di analizzarlo in diverse sezioni.

 

LA RICOSTRUZIONE AMBIENTALE

Per la ricostruzione del fatto (o per meglio dire del contesto ambientale in cui maturò la tragedia di Piazza Alimonda) la Dr.ssa Daloiso fa riferimento in particolare alla testimonianza di un anonimo anarchico (seconda divagazione nel campo dell’ironia: credo sia la prima volta che la testimonianza di un anarchico, per di più anonimo, conti qualcosa per la Magistratura italiana…) che su un sito internet (www.anarchy99.net) ha lasciato la propria testimonianza (nelle parole del GIP: "un dettagliato racconto certamente aderente alla realtà per i particolari descritti che trovano riscontro nel materiale video fotografico e nelle testimonianze in atti e può dunque costituire la base per ricostruire con precisione gli eventi").

Nel complesso appare chiara l’intenzione del GIP: dimostrare come l’atteggiamento dei manifestanti fosse di un’aggressività tale da far ritenere fondata, concreta ed imminente la minaccia per l’incolumità degli occupanti del famoso defender. Resta priva di spiegazioni, nel decreto di archiviazione, la rabbia di quei manifestanti.

Su "Carta" del 2 maggio 2003 Haidi Giuliani ha scritto: "Più mi documentavo, più si allungava la fila dei miei perché. Perché quel corteo era stato caricato senza preavviso, senza ragione apparente mentre transitava lungo un percorso autorizzato? Perché in precedenza non si erano fermati i delinquenti vestiti di nero che spaccavano e incendiavano? (…) Chi aveva comandato, dopo tre ore di cariche, di lacrimogeni, di pestaggi, quel breve assalto laterale? Perché quella camionetta si è fermata in mezzo all'incrocio contro il cassonetto? Chi ha rotto il vetro posteriore? (…) Perché la polizia che presidiava con numerosi mezzi la via adiacente non è intervenuta? (…) E ancora: che cosa è accaduto, dopo? (…) A queste domande - pensavo - risponderà l'inchiesta".

Si potrebbe obbiettare che scopo dell’indagine penale era solamente il ricostruire il fatto in sé, e non le complesse origini del fatto stesso. Si potrebbe obbiettare ancora che l’indagine penale non deve rispondere a dubbi di natura etico-morale sul comportamento degli indagati, ma solo accertare se quel comportamento abbia o meno violato il codice penale…

Eppure, nonostante queste obiezioni, il dubbio sulla ricostruzione contenuta nel documento-Daloiso resta: perché il GIP OPERA una contestualizzazione dell’evento ("E non vi è parimenti dubbio che la situazione in cui Placanica si è trovato ad agire fosse di estrema violenza volta a destabilizzare l’ordine pubblico ed in atto nei confronti delle stesse forze dell’ordine"), ma la opera IN SENSO UNIDIREZIONALE: è chiaro l’intento di dimostrare che se anche si volesse parlare di eccessi delle forze dell’ordine questi sarebbero stati la risposta alle violenze dei manifestanti, e non l’opposto.

Insomma, non è vero che l’ordinanza-archiviazione ha rifiutato di ricostruire il contesto in cui è maturata la morte di Carlo (atteggiamento che, seppur discutibile, sarebbe stato perlomeno spiegabile proprio con l’esigenza di imparzialità e distacco che dovrebbe accompagnare l’azione della Magistratura); l’ordinanza HA VOLUTO costruire un contesto, ma che fosse di comodo per gli apparati dello stato. Si è voluto affermare "di facciata" che per risolvere il caso bastavano i periti e la dinamica del fatto, salvo poi affermare che proprio il contesto spiegherebbe la legittima difesa…

Ma, a proposito di tale contesto, torniamo all’"anonimo anarchico". Specifico da subito che, non avendo competenze tecnico-legali, non posso pronunciarmi su quanto sia corretta la scelta di assumere una testimonianza anonima quale fondamento di una ricostruzione ambientale in un caso di omicidio; i miei dubbi resteranno confinati alla dimensione della "opportunità morale", diciamo così, ma sulla correttezza procedurale non posso dire nulla.

Mi interessa però analizzare la testimonianza in sé, che mi lascia molto perplesso a cominciare dallo "strano" linguaggio usato dal presunto anarchico, che alterna definizioni tecniche ("Il dispositivo poliziesco") ad altre più colorite ("sbirri", "ho notato che pisciava sangue dall’orbita sinistra", "ne prendevano tante sul muso").

A dire il vero questa altalena linguistica potrebbe essere spiegata con una traduzione non raffinatissima, volta più a conservare il senso della testimonianza che la sua forma. Ma leggendo il testo originale (in francese; anche se non è da escludere fosse in italiano, traslato in francese per la pubblicazione in internet e poi tradotto ancora dai consulenti dei Magistrati) le perplessità circa il tono ondivago dell’anarchico restano; le sue parole a tratti sembrano una deposizione davanti ad un Magistrato; in altri momenti il frutto di un’avversione per la polizia ("gli sbirri") talmente evidente da sembrare stereotipata; in altri ancora sono le definizioni "militaresche" (il già citato "dispositivo poliziesco", ma in generale tutto il racconto presenta diversi passaggi scritti con linguaggio da "osservatore militare") che portano molte domande… Ma, al di là del tono, è pacifico che questa sua ricostruzione sembra ESATTAMENTE quella che farebbe comodo alle forze dell’ordine. Ci troviamo infatti ripetute considerazioni su un altissimo numero di manifestanti ("C'erano migliaia di persone in questa zona vicino agli scontri (…) c'era tanta gente e le prime tracce di scontri iniziavano a farsi vive (…) c'erano centinaia di persone nelle prime file dei tumultuanti (…) centinaia di persone hanno iniziato ad avanzare contro gli sbirri (…) c'erano 1000/2000 più su nel corso che iniziavano a seguire sempre più numerosi e rapidamente le prime file di tumultuanti") e su una situazione ambientale di violenza estrema ("e' iniziata adesso una vera pioggia di pietre. Ce n'erano sempre di più che gli cadevano addosso (…) Il lancio di pietre ha preso forma di avvicendarsi intensamente e rapidamente (…) L'atmosfera era furiosa. Il livello di violenza era veramente elevato. (…) E' stato tutto violento, rapido e confuso").

Attenzione: non dico che questo racconto sia TUTTO E PALESEMENTE falso: è il tono che non mi convince; l’enfasi con cui si sottolineano il numero e la violenza dei manifestanti potrebbe essere usata da chiunque, pur non essendo stato presente in Piazza Alimonda, avesse voluto scrivere un racconto di genere hard-boiled, dove una lettura cinica ed esasperata dell’azione e della violenza ha un ruolo predominante rispetto alla trama. Più che una testimonianza sembra "un compitino"; ben scritto e, forse, GIA’ scritto…

Insomma, la testimonianza non fa che avvalorare LA PRIMA tesi che le forze dell’ordine cercarono di portare avanti (o meglio: la seconda, dopo che la prima, basata sul sasso che aveva ucciso Carlo, si era sciolta come neve al sole dopo le prime foto): la legittima difesa in un contesto di aggressione che faceva temere per la vita degli occupanti del defender. Nelle parole dell’"anarchico" non manca nulla: la camionetta isolata, la situazione ambientale insostenibile, il panico degli occupanti la camionetta… Ma se è comprensibile che la testimonianza dell’anarchico non comprenda tutti gli approfondimenti successivi (vero o falso che sia il documento è fermo all’immediatezza dei fatti) è assolutamente criticabile che il GIP assuma come oro colato quella testimonianza trascurando quegli approfondimenti come se non fossero mai venuti a galla (la jeep NON ERA isolata; la sassaiola che colpisce il defender va scemando già prima della morte di Carlo, tanto che la maggior parte dei manifestanti si erano già allontanati dalla vettura; la situazione per gli occupanti la jeep non sembra essere tale da far pensare ad un reale pericolo di vita).

 

UN PICCOLO DETTAGLIO…

Quanto alla convinzione del GIP secondo cui la ricostruzione dei fatti sarebbe stata operata con completezza e frutto di analisi scrupolose, mi permetto di obbiettare con un piccolo particolare (che si aggiunge ad altri che abbiamo già visto o che vedremo in seguito): a pagina 35 dell’ordinanza la Dr.sa Daloiso scrive: "… quello stesso estintore che alcuni secondi dopo Carlo Giuliani raccoglierà da terra alzandolo sopra la testa per scagliarlo nuovamente all’interno della camionetta, come qualcun altro, se non addirittura lui stesso, aveva poco prima tentato di fare…". Questa considerazione ("se non addirittura lui stesso") può apparire di scarso rilevo, ma testimonia in maniera lampante la superficialità con cui sono state valutate certe documentazioni e la volontà di screditare la vittima, facendo apparire il suo gesto come la reiterazione di una violenza già compiuta in precedenza. Nel film di Francesca Comencini, "Carlo Giuliani, ragazzo", risulta EVIDENTE che il primo lancio dell’estintore viene fatto DA UN ALTRO MANIFESTANTE. L’estintore si ferma per pochi attimi in bilico sulla ruota di scorta del defender per poi rotolare giù, probabilmente spinto dal "famoso" piede che spunta dal lunotto posteriore. Si scorge anche, di sfuggita, il momento in cui Carlo lo raccoglie da terra. Questo momento precede di pochi istanti i due spari, e questa circostanza è confermata dalle parole del Maresciallo Piergiorgio Amatori (si tratta dell’ufficiale che, poco distante da Piazza Alimonda, si avvicina poi al defender in fuga per prestare soccorso, e sostituisce alla guida Cavataio, in stato confusionale): "in particolare ho notato un estintore scagliato da un manifestante contro il vetro posteriore della camionetta. Quasi contemporaneamente ho avvertito distintamente due colpi d’arma da fuoco…".

Quel "quasi contemporaneamente", peraltro suffragato dal video già citato, mi sembra stroncare anche un’altra "sicurezza" che il GIP ha mutuato dal lavoro dei periti: quella secondo cui Carlo (ripreso dalla già citata foto laterale di Marco d’Auria con l’estintore sopra il capo a più di 3 metri di distanza dal filo posteriore della jeep) avrebbe dimezzato la propria distanza dall’automezzo prima dello sparo, portandola a metri 1,70. La circostanza mi sembra pura fantasia. E ricordo che la distanza di Carlo dalla jeep E’ FONDAMENTALE, in quanto con una distanza diversa da un metro e 70 la "teoria del calcinaccio" cadrebbe definitivamente, visto che l’ipotizzata deviazione di traiettoria interesserebbe il volto di Carlo solo se quest’ultimo fosse stato proprio a quella distanza dall’automezzo.

Dall’ordinanza del GIP: "[i consulenti del Pubblico Ministero] hanno effettuato prove di sparo (…) La cassetta di recupero dei proiettili è stata posta alla distanza di m 1,75 dal portellone posteriore del veicolo. Infatti i consulenti del Pubblico Ministero, sulla base dei riferimenti spaziali che appaiono nelle fotografie, hanno ipotizzato che Carlo Giuliani potesse trovarsi alla distanza di circa 3 metri dal "defender" nel momento in cui si dirigeva vero il mezzo sollevando l'estintore sul capo, con la gamba sinistra alzata; e che abbia pertanto coperto l'ulteriore spazio di circa m 1,50 prima di essere colpito". In altre parole mi sembra che per fornire una spiegazione "attendibile" dell’evento si siano addirittura sommate NON due certezze, ma due fantasie: prima la deviazione del proiettile, e poi (visto che la deviazione da sola non bastava…) si sia letteralmente spostato in avanti Carlo di un metro e mezzo per fargli incontrare la pallottola che altrimenti, anche con la fantasiosa teoria del calcinaccio, non lo avrebbe mai colpito.

Addirittura irritante è il modo in cui la Dr.ssa Daloiso cerca di avvalorare la tesi secondo cui Carlo sarebbe stato colpito quando si trovava ad una distanza inferiore a quella rilevata dalla famosa "foto D’Auria": lo fa citando l’unica persona che colloca la vittima a circa due metri dal defender. Si tratterebbe (vedremo fra poco perché è corretto usare il condizionale) di Eurialo Predonzani, divenuto "famoso" nelle immagini di Genova per essere "il ragazzo col casco e salvagente rosso"). Il brano che ci interessa, tratto dall’ordinanza-archiviazione, è questo: "Un attimo prima di fuggire vedo l'estintore a terra, è tozzo, bombato e di colore arancione, vedo un ragazzo che barcolla che si trova a non più di 2 metri dalla jeep".

Il punto è questo: il brano sopra riportato proviene dalla deposizione fatta il 6 settembre 2001 dal Predonzani davanti al PM, più precisamente si tratta della lettura (fatta dal PM all’interessato), di un’intervista rilasciata da Predonzani al Corriere della Sera… MA NON E’ VERO che il Predonzani in occasione dell’audizione abbia confermato l’intervista! Anzi, in più passaggi il ragazzo contesta la correttezza delle frasi che il Dottor Franz gli rilegge (estratte dall’intervista al "Corriere"), tanto da fare mettere a verbale : "Voglio infine aggiungere che ho rilasciato due interviste in questo periodo: una a Marisa Fumagalli del Corriere della Sera del 31.7 ed una al Manifesto (…) Mentre ho delle riserve sul contenuto e sulle frasi attribuitemi dalla Fumagalli, ho trovato molto più fedele l’articolo del Manifesto".

La cosa risulta evidente anche in altri particolari: Predonzani è perentorio nel sostenere che la jeep dei carabinieri avesse il lunotto posteriore GIA’ ROTTO nel momento in cui urtò il cassonetto in Piazza Alimonda. Lo scrive nel memoriale che deposita presso il PM e lo ribadisce PER BEN DUE VOLTE al dottor Franz; e questo particolare è confermato anche da altre testimonianze (prima fra tutte, quella del famoso "anonimo anarchico", le cui parole per altre circostanze sono state prese per oro colato dal GIP). La famosa intervista al Corriere della Sera recitava diversamente: "qualcuno di noi riesce a sfondare il lunotto posteriore, credo con un bastone…".

Insomma, per confermare la vicinanza di Carlo alla jeep la Dr.ssa Daloiso cita uno stralcio di un’intervista SMENTITA dallo stesso interessato e priva di altri riscontri oggettivi, precisamente l’unico passaggio in cui a proposito di Carlo si dice "… a non più di due metri dalla jeep". E questo basta al GIP per affermare apoditticamente l’esistenza di dichiarazioni (notare il plurale…) che "collocano Carlo Giuliani a circa due metri dal defender", e per ritenere quindi i risultati della perizia (già fantasiosi dal punto di vista concettuale) confermati anche a livello di distanze spaziali, dove i dubbi sono ancora più rilevanti…

 

UN ALTRO "PICCOLO" DETTAGLIO…

Gran parte delle indagini sono state condotte da appartenenti all’arma dei carabinieri, ossia dallo stesso ramo delle forze dell’ordine a cui appartiene l’indagato. Questo non è solo contrario alla logica più elementare, ma viola i principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui inchieste di questo tipo devono essere affidate a corpi indipendenti da quelli coinvolti. La Dr.sa Daloiso a tale proposito si limita a dire che "tali considerazioni possono avere poteri suggestivi, ma nulla hanno a che vedere con ciò che davvero si è verificato in Piazza Alimonda portando alla tragica morte del giovane Giuliani, le cui drammatiche fasi sono state documentate da copioso materiale video fotografico in atti e dalle dichiarazioni degli stessi protagonisti della vicenda con una dovizia di mezzi e particolari che non può e non deve consentire di spostare l’attenzione su considerazioni del tutto irrilevanti".

Anche questo mi sembra confermare l’atteggiamento del GIP, teso a cercare solo gli elementi che confermerebbero una ricostruzione di cui lo stesso si era intimamente già convinto, fuggendo da considerazioni che avrebbero rimesso in discussione "certezze" già precostituite.

 

ANCHE IL LINGUAGGIO HA LA SUA IMPORTANZA…

Il GIP parla con grande distacco dell’evento. Solo sul finire (precisamente a pagina 38) parla di "tragica morte di Carlo Giuliani". E da qui fino all’ultima pagina le considerazioni "più umane" si infittiscono improvvisamente: "tragica fatalità" (pag. 41), "tragico episodio" (pag. 43), ancora "tragica morte" (pag. 44).

Sembra quasi che solo dopo aver smontato le tesi dei familiari della vittima e dopo aver stabilito in via definitiva che la condotta di Placanica era da inquadrarsi nell’uso legittimo delle armi (pag. 30) e nella legittima difesa (pag. 37) il GIP si senta liberato dall’obbligo del distacco emozionale… O forse solo a questo punto il GIP ritiene doverosa e non controproducente qualche considerazione "umana".

Mi viene in mente uno strano parallelo con Filippo Cavataio, l’autista del mezzo, che dice di non essersi accorto di aver travolto il corpo di Carlo per ben due volte… "Ho pensato ad un cumulo di immondizia, visto che era stato rovesciato il cassonetto…", afferma, lasciando involontariamente una metafora agghiacciante di quanto accaduto: il corpo di Carlo era inutile quanto un cumulo di immondizia, qualcosa di cui ci si deve liberare in fretta e senza tanti pensieri… E così pure la dottoressa Daloiso "si libera" del corpo di Carlo, e solo dopo averlo "scaricato" assolvendo Placanica riesce a parlare di "tragedia", in un sussulto di umanità che voglio perlomeno sperare sincero…

Ma forse il momento più stucchevole dell’ordinanza del GIP arriva sul finale, quando la Dott.sa Daloiso respinge le richieste di integrazione delle indagini avanzate dalla famiglia Giuliani. In particolare sulla richiesta di una nuova consulenza sulle cause della morte di Carlo, per determinare quanto abbia contribuito il passaggio sul suo corpo del defender, l’ordinanza afferma che "non vi sono in atti elementi che consentano di dubitare della scrupolosità degli accertamenti eseguiti e della correttezza dei metodi di indagine esperiti" (nota mia: nonostante lo stesso PM, ripeto, avesse definito superficiale l’autopsia). Ma soprattutto il GIP si lascia andare a questa considerazione: "Va inoltre osservato che le persone offese, messe in condizione di partecipare all'autopsia disposta sul corpo del giovane con propri consulenti e dunque di verificare la correttezza dei metodi di indagine che venivano applicati, non hanno ritenuto di avvalersi di tale facoltà nè di svolgere propri accertamenti sulla salma del giovane che anzi è stato cremato appena tre giorni dopo la sua morte, rendendo, quand'anche fosse utile (il che non è) impossibile qualsiasi ulteriore accertamento".

Dunque, in parole povere: "cosa pretende la famiglia Giuliani, visto che HA SCELTO di non partecipare all’autopsia e per di più ha fatto cremare il proprio congiunto?! Se l’autopsia dice che un mezzo di circa due tonnellate (comprese le persone a bordo) può passare sopra un corpo senza lasciare danni rilevanti sarà vero, che diamine!"

Indipendentemente dagli altri rilievi fatti sull’ordinanza per motivi "tecnici", questa considerazione mi sembra il punto più basso a livello di sensibilità umana… Ma è comunque un passaggio che ha un merito enorme: rende palese lo spirito che sottende l’intero documento di archiviazione; una volontà, come accennavo nella premessa, di RIMOZIONE più che di archiviazione. Lo stesso spirito che fece dire all’ex Ministro Scajola "Ne eravamo certi fin dal primo momento: è scattata la legittima difesa".

 

MARIO PLACANICA

OVVERO: UN UOMO, DUE SPARI, MOLTE VERSIONI…

 

In questa sezione vediamo di analizzare quello che è (o è stato fatto diventare) il principale protagonista della vicenda: Mario Placanica, carabiniere calabrese, 20 anni all’epoca del fatto, l’uomo che si è autoaccusato di avere esploso due colpi dal defender in Piazza Alimonda il primo dei quali raggiunse Carlo al volto.

Innanzitutto riporto alcuni brani di sue dichiarazioni, rilasciate in tempi successivi.

 

dal primo verbale del 20 luglio 2001 (Fonte "Misteri d’Italia" - http://www.misteriditalia.com/)

"alla vista del sangue e del mio amico ferito ho messo il colpo in canna alla pistola che tenevo in una fondina a coscia, rimettendo poi però la sicura. Nel frattempo intimavo ai manifestanti di finirla perché se no avrei sparato, loro imperterriti hanno continuato a colpire e a lanciare pietre.

Nell'agitazione e cercando di difendermi, mi sono accorto a posteriori che con la mano avevo nel frattempo inavvertitamente levato la sicura. Il lancio di pietre è continuato ed io ho sentito la mia mano contrarsi e partire dalla mia pistola 2 colpi di arma da fuoco; io ero in posizione accucciata con la mano alzata ed armata, la mia mano con la pistola era quella che spuntava dalla camionetta".

A domanda risponde:

"Alla mia vista nel momento in cui puntavo la pistola non aveva persone, percepivo che vi erano aggressori ma non li vedevo percependo solo il continuo lancio di pietre. Ero convinto che vedendo l'arma avrebbero desistito ed invece hanno continuato".

A domanda risponde:

"Per quello che posso ricordare mi pare di aver tenuto la pistola in mano con le modalità riferite per circa un minuto. Anche dopo che sono partiti i due colpi il lancio delle pietre è continuato; nessuno ha urlato, nessuno ha detto nulla in merito alla possibilità che avessi colpito qualcuno. Io ero accucciato e non ho fatto caso se avessi colpito qualcuno".

 

Dal secondo verbale, 9 settembre 2001 (Fonte: Il Secolo XIX del 19.07.02)

"Ricordo il particolare di avere sentito il vetro posteriore infrangersi e vidi Raffone come tramortito. Gli dissi di piegarsi e di stare fermo, mentre io mi posizionavo con le spalle al sedile di Cavataio e cercavo di evitare di essere trascinato fuori, in quanto vi erano diverse mani che mi avevano preso le gambe e temevo che cercassero di appropriarsi dell’arma posizionata sulla coscia destra. Subito sentii un forte dolore alla testa e toccatomi vidi che stavo perdendo sangue essendo stato già colpito una volta, forse due, da una pietra che vidi sul pavimento sporca di sangue. (…) Fu in quel momento che decisi di estrarre la pistola che tenevo nella fondina posizionata nella coscia destra vicino al ginocchio. Tolsi la sicura rimettendola immediatamente dopo. Mi misi a urlare "andatevene o vi ammazzo" e lo dissi almeno tre o quattro volte. L’aggressione stava continuando e fu allora che esplosi un colpo, il successivo seguì quasi di riflesso trattandosi di arma semiautomatica. Nel giro di pochi attimi Cavataio riuscì a rimettere in moto l’auto".

 

Da Il Nuovo del 26 maggio 2002 (trascrizione parziale di un’intervista rilasciata da Mario Placanica a "Terra" – Canale5)

"Prima della pistola si può usare la parola ... e a quel punto io intimai, gridai di allontanarsi altrimenti avrei sparato ... alla mia sinistra c'era gente... dietro c'era gente ... e allora presi la pistola e sparai dei colpi".

"Ho cercato di sparare in aria, per questo dico che non mi sono accorto che c'era Carlo Giuliani dietro la macchina"

"Non ho visto Carlo Giuliani, ho visto una persona che veniva contro di noi con un oggetto metallico molto grosso, non riuscivo a distinguere se era un estintore perché i miei occhi ancora lacrimavano per i lacrimogeni e poi c'era il sangue sulla mia faccia".

 

intervista al TG1 del luglio 2002, ripresa da diversi quotidiani – versione estratta da un articolo di Madame Psychosis apparso su Il Barbiere della Sera - http://www.ilbarbieredellasera.com/

"C'era una gran confusione. Si sentivano botti da tante parti. Con questo non accuso nessuno: ma non sono stato il solo a sparare. Potrei non essere stato io. Se non sono stati i miei due colpi a uccidere Giuliani, allora mi hanno fatto vivere un anno terribile senza che lo meritassi. (…) Non so neppure se sono stato io … adesso posso solo confermare di avere sparato in aria. Sono sicuro di questo … però secondo me c'è un mistero: tutte quelle pietre che deviano proiettili, corpi metallici, non si capisce niente … A volte ho la sensazione di essere stato usato per coprire responsabilità più grandi delle mie, ma adesso non ci sto più … anzi, non credo di essere stato io a uccidere Carlo Giuliani … la verità è che io non ho mai avuto un ricordo nitido di quei fatti. Ma in piazza Alimonda quel giorno è successo qualcosa di strano, mi hanno lasciato solo".

 

Vediamo ora di ripercorrere in modo critico questi brani, evidenziando le contraddizioni emerse.

 

LA DIREZIONE DEI COLPI ESPLOSI

Placanica già nei due interrogatori fornisce due versioni diverse, ma non dice MAI di avere sparato in alto: questo lo dirà solo alla stampa, DOPO la perizia dei tecnici incaricati dal PM che per la prima volta accenna al colpo deviato… Per di più il giovane carabiniere aggiunge (sempre e solo DOPO le due testimonianze di fronte al PM) strane e sibilline considerazioni sul fatto che potrebbe aver sparato qualcun altro… Senza che per questo il PM abbia ritenuto necessaria una sua nuova convocazione.

Tralasciando ulteriori commenti sulla bizzarra teoria del calcinaccio che avrebbe deviato il primo colpo, è da ricordare che il secondo colpo andò a conficcarsi in un muro a 23 metri di distanza e ad un altezza di metri 5,20, con un angolo di inclinazione che non fa certo pensare ad un colpo sparato in aria (questo proiettile nel suo primo tratto avrebbe tranquillamente colpito una persona di statura normale), e che lo stesso PM a tale proposito dichiara la "non possibilità di determinare la traiettoria del proiettile che ha attinto il Giuliani".

 

LA POSIZIONE DI PLACANICA ALL’INTERNO DEL DEFENDER

Anche su questo aspetto restano molti dubbi.

"ho visto in difficoltà il mio collega e ho pensato che dovevo difenderlo; l'ho abbracciato per le spalle ed ho cercato di farlo accucciare sul fondo della jeep" (primo verbale del 20 luglio 2001).

"Ho preso una botta in testa da quella trave infilata nel Defender. (…) Ho sparato. Nella posizione in cui mi trovavo, semidisteso nell'auto, potevo sparare solo verso l'alto. La mia mano con la pistola era al di dentro dell'auto, ne sono certo, e non fuori come appare in qualche strana immagine. Ho sparato due colpi in successione, uno sembra sia finito sul muro della chiesa, l'altro - dicono - avrebbe ucciso Carlo Giuliani" (intervista a Repubblica).

A questo proposito esiste una foto che ha fatto molto discutere:

 

 

Il corpo del carabiniere che impugna la pistola è sormontato da quello di un collega che si copre parzialmente il lato sinistro della faccia con la mano e sembra rivolgersi al guidatore. Se è Placanica a sparare (e se davvero nella camionetta erano in tre) quel carabiniere può essere solo Raffone… Ma in questo caso crollerebbe la versione di un Placanica che spara accucciato sul pianale della jeep mentre protegge il sottostante Raffone. E risulta difficile pensare che Placanica si sia confuso: la circostanza secondo cui Placanica si sarebbe posto a protezione del semitramortito e disteso Raffone è infatti un punto fermo nelle dichiarazioni del Placanica, che per molti altri aspetti risultano contraddittorie.

Ma la foto sopra riportata (scattata poco dopo lo sparo mortale, mentre la jeep ha travolto una prima volta il corpo di Carlo e sta per lasciare Piazza Alimonda) ha fatto nascere anche altri dubbi, persino più inquietanti, ai quali purtroppo non sono in grado di fornire risposte. Il carabiniere ferito alla parte sinistra del volto (che non impugna pistole, o perlomeno non la impugna in questo momento) assomiglia molto a Placanica, che quindi NON POTREBBE ESSERE l’uomo che ha sparato (ma vedremo fra poco che in questo caso è bene usare il condizionale e grande prudenza…). Questa è l’unica foto che ritrae Placanica ferito pochi minuti dopo l’arrivo del carabiniere all’ospedale Galliera di Genova.

 

 

La somiglianza in effetti c’è. Nel film "Genova senza risposte" Lello Voce parla anche di queste due foto, dicendo che il profilo del carabiniere ferito nella jeep è incompatibile con quello di Dario Raffone (il terzo occupante "certo" del defender), ma la definizione delle due foto non è tale da consentire certezze in merito.

Per ora vediamo di conoscere meglio le condizioni di Raffone; le possiamo ricostruire in base a dichiarazioni del Placanica ("il mio amico è rimasto colpito da una pietra sotto l’occhio all’altezza dello zigomo"), dello stesso interessato (21 luglio 2001: "io fui colpito alla schiena e al volto da delle pietre e cominciai a perdere sangue (…) Sono stato curato presso l’ospedale Galliera dove mi è stato diagnosticato un forte ematoma allo zigomo destro ed ecchimosi varie") e dall’ordinanza del GIP ("il carabiniere Raffone [risultava aver riportato] contusioni escoriate al naso e allo zigomo destro, contusioni alla spalla ed al piede sinistro").

Ma accantoniamo il discorso sulla somiglianza Placanica/Raffone; la questione è impossibile da risolvere in questa sede, ma soprattutto non è così rilevante, in quanto esistono nella prima foto BEN ALTRI ELEMENTI (meno aleatori) che mettono in discussione la versione di Placanica. Di sicuro nella foto c’è un carabiniere semidisteso sul pianale (se ne nota uno scarpone, appoggiato al lunotto posteriore del defender), e sembra che questo militare sia proprio quello che ha aperto il fuoco (più precisamente: il piede appoggiato sul retro della vettura e la mano che impugna la pistola sembrano appartenere alla stessa persona). Ma allora i conti non tornano: se è Placanica a sparare, allora Placanica è il militare semidisteso con lo scarpone visibile. Questo spiegherebbe anche certe sue dichiarazioni: "(…) vi erano diverse mani che mi avevano preso le gambe…", "io scalciavo perché i manifestanti mi tiravano per una gamba che mi veniva afferrata dall’esterno per tentare di tirarmi fuori dalla macchina", circostanza non documentata da nessuna foto di Piazza Alimonda e che potrebbe essere spiegata solo come sensazione istintiva, anche se totalmente infondata (NESSUN manifestante riesce ad arrivare così vicino al retro del defender da poter afferrare per la gamba un militare). Ma se Placanica è semidisteso, allora è Raffone l’uomo in posizione eretta che si tiene il volto; e questo cozza contro una delle poche certezze dell’accusato (che su molti punti, come abbiamo visto e come vedremo, si contraddice, ma che afferma SEMPRE che la sua posizione era SOPRA al Raffone, semitramortito). Questa circostanza viene avvalorata dalle parole dello stesso Raffone: "il carabiniere che mi stava davanti cercava a sua volta di rannicchiarsi sopra di me e di proteggerci". A questo proposito è utile pure ricordare alcune dichiarazioni del già citato Maresciallo Piergiorgio Amatori: "Ho notato che l’autista era sceso ed era visibilmente agitato, mi ha chiesto aiuto. Nel frattempo ho notato il carabiniere seduto dietro il posto di guida che si teneva la testa sanguinante. (…) In quel frangente il carabiniere ferito perdeva molto sangue, si lamentava e chiedeva soccorso. (…) Gli altri due carabinieri non parlavano ed io girandomi ho notato che quello ferito aveva una pistola in pugno, tanto che gli ho detto di mettere la sicura".

Attenzione, perché la deposizione di Amatori mi sembra molto importante e sottovalutata dal GIP (anche considerando che si tratta di una deposizione "lucida", fatta da un uomo i cui ricordi non sono inquinati dalla concitazione dei momenti di Piazza Alimonda). Amatori parla di UN SOLO carabiniere ferito alla testa e sanguinante, seduto dietro al posto di guida; e aggiunge che E’ PROPRIO QUEL CARABINIERE a tenere in mano la pistola.

In definitiva, da un’analisi della foto e delle deposizioni lette mi sembra emergano almeno quattro ipotesi:

1) Il carabiniere in posizione eretta con la mano sulla guancia sinistra è proprio Placanica, che si è alzato dalla posizione precedente in cui "proteggeva" Raffone… Ma allora i militari che hanno sparato, o almeno puntato armi verso l’esterno, dovrebbero essere due. E questo potrebbe trovare un parziale riscontro nella prima perizia balistica ordinata dal Dott. Franz, che in un primo momento parlò di due bossoli esplosi da due armi differenti, perizia che poi fu corretta andando ad attribuire entrambi i bossoli all’arma di Placanica.

2) Nella jeep non erano in tre: posto che Cavataio è un "punto fermo" (è l’autista), posto che Raffone sia davvero semidisteso e tramortito sul pianale, e che il Placanica sia l’uomo che si tiene il lato sinistro del volto, c’è un quarto uomo.

3) il carabiniere in posizione eretta ferito al volto è Raffone, ma in questo caso sia lui che Placanica hanno mentito davanti al Giudice, attribuendosi all’interno del defender posizioni sbagliate. Potrebbero essersi confusi, certo, ma appare strano che i due commettano lo stesso errore…

4) Placanica è proprio l’uomo che tiene la mano sul lato sinistro della faccia (dove è stato ferito). Raffone NON E’ MAI STATO su quella jeep (ecco perché quando parla delle posizioni sul defender "si confonde", sì, ma si confonde proprio come Placanica…) e a sparare è un altro militare. Inquietante, lo so. Ma in fondo è solo un’ipotesi…

Concludendo questa lunga dissertazione partita dalla foto che ho riportato, devo sottolineare che NESSUNA di queste considerazioni mi sembra emersa dalle 48 pagine dell’ordinanza-archiviazione. Leggendo il dispositivo sembra addirittura che questa foto non sia stata neppure presa in considerazione. Non posso ovviamente sapere se non fosse agli atti o se sia stata, semplicemente, ignorata assieme a tutti i dubbi che poteva portare.

Abbandoniamo ora i dubbi (purtroppo rimasti tali) sollevati dalla foto, ma rimaniamo alla posizione del Placanica nel defender: anche la posizione della sua mano risulta diversa nelle dichiarazioni ("la mia mano con la pistola era quella che spuntava dalla camionetta"; "La mia mano con la pistola era al di dentro dell'auto, ne sono certo, e non fuori come appare in qualche strana immagine"). Può sembrare un fatto di secondaria importanza (anche perché, a dire il vero, sembra assodato e condiviso anche dai periti di parte Giuliani che al momento dello sparo la mano armata era di circa 30 cm. all’interno del filo posteriore della jeep; impressioni diverse possono stavolta essere davvero giustificate con "scherzi" dovuti al punto di ripresa delle immagini o con ricordi poco nitidi dei protagonisti); ma non è più di secondaria importanza se uniamo questa contraddizione al dubbio circa il numero dei carabinieri all’interno della jeep (ricordo ancora che alcuni testimoni parlarono di 4 e non 3 occupanti), alle conseguenti perplessità su quante persone hanno sparato in quei frangenti, e soprattutto alla sicurezza con cui il giovane carabiniere espone questo dettaglio: su molti aspetti Placanica si trincera dietro a "non so, non ricordo" , ma sulla posizione della sua mano dà con sicurezza contrastante due versioni ben diverse… Senza che nessuno cerchi di approfondire l’argomento

 

ALTRI DETTAGLI

Anche sulla propria abilità nell’uso delle armi Placanica cade in una contraddizione, forse meno clamorosa ma persino più evidente: "Avevo una certa pratica nell’uso delle armi, e per tale motivo sono stato scelto quale granatista" (primo verbale del 20 luglio 2001). "Spero che si farà luce su questa questione … difficilmente avrei colpito Giuliani… non so neanche sparare, nelle esercitazioni al Poligono di tiro sono scarso" (intervista al TG1 del luglio 2002, ripresa da diversi quotidiani – anche questo brano è estratto dall’articolo di Madame Psychosis).

CONCLUSIONI

Il fatto che le dichiarazioni di Placanica siano contraddittorie mi sembra palese. E, pure in assenza di specifiche conoscenze giuridiche, penso che già la sola presenza di queste contraddizioni dovrebbe essere sufficiente per ritenere necessario un pubblico dibattimento dove emergano certezze laddove oggi sono rimaste solo zone d’ombra.

 

FILIPPO CAVATAIO

 

Una brevissima sezione la merita anche l’autista del defender. Il PM ha ritenuto di scagionare Cavataio "sia per mancanza dell’elemento soggettivo … sia perché tale condotta è stata ininfluente sull’evento".

Sicuramente Cavataio è un altro che "non la racconta giusta", visto che in un primo momento dice "non ho sentito colpi di arma da fuoco, non ho sentito nulla se non le urla dei colleghi", ma viene smentito dal già citato Maresciallo Amatori, che disse che il carabiniere alla guida gli riferì di aver sentito gli spari poco prima di fare retromarcia. Il Cavataio, davanti alla contestazione del giudice su questa contraddizione se la cava dicendo semplicemente "non ricordo di aver riferito questa circostanza al maresciallo. Tenete presente che ero nel panico".

Si potrebbe obbiettare comunque che i disturbi all’udito di cui soffre Cavataio sono del tipo "a singhiozzo", visto che gli sfuggono i colpi d’arma da fuoco ma sente benissimo i colleghi che gli urlano di andare via… Ma le percezioni sensoriali di Cavataio devono essere disturbate in generale, visto che, come già detto, non s’accorge di travolgere per ben due volte il corpo di una persona, pensando ad un sacco di rifiuti…

Già, ci sarebbe da scrivere parecchio anche su di lui, ma il Cavataio lasciamolo pure ai margini della vicenda processuale, già abbastanza zeppa di "buchi neri". Mi limito a dire che la fuga della jeep fu un atto ignobile dal punto di vista morale. Immediatamente dopo gli spari i manifestanti si allontanarono terrorizzati ed il corpo di Carlo fu circondato dalle forze dell’ordine. In questo contesto la fuga dei carabinieri fu un gesto di vigliaccheria avvilente. La responsabilità di chi travolge un ferito omettendo di prestargli soccorso mi sembrano innegabili. Ma su questo mi auguro "lavori" la coscienza di Cavataio. Non è una grande speranza, ma in proposito non mi resta molto altro a cui aggrapparmi…

 

CONCLUSIONI

 

Come ho detto nella premessa, questo articolo non comprende tutti gli argomenti che la controinchiesta ha trattato. Vedrò ora di fare una veloce carrellata sugli aspetti che ho lasciato inevasi, rinnovando l’invito a visitare il sito Pillola Rossa (http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/), dove troverete ANCHE gli approfondimenti sotto riportati.

 

IL PROIETTILE DI PLASTICA

Proprio gli effetti della pallottola che colpì Carlo (effetti anomali, come già detto, per un proiettile 9mm parabellum) portarono, PRIMA della teoria della deviazione di traiettoria, anche all’ipotesi che il ragazzo fosse stato colpito da un proiettile "speciale". Un lungo articolo di Stealth approfondisce questa teoria.

 

I CCIR (Contingenti Compagnie ad alto Intervento Risolutivo)

Questo argomento solo in apparenza è marginale alla vicenda di Carlo Giuliani. In realtà a volte tutti dimentichiamo che la morte di Carlo è da inquadrare nell’ambito di una strategia repressiva di inaudita violenza che fu attentamente pianificata PRIMA di Genova. I tre giorni di Genova furono una specie di laboratorio delle nuove tattiche di gestione dell’ordine pubblico; tattiche che trascendevano (forse per la prima volta in modo davvero palese) l’obbiettivo del "contenimento", a favore di un approccio aggressivo nei confronti dei manifestanti.

Trovate questi approfondimenti in un articolo di Franti.

 

UN ALTRO SASSO SULLA SCENA…

Il calcinaccio che avrebbe deviato il colpo di pistola di Placanica non ha l’onore di essere l’unico protagonista "del regno minerale" della vicenda…

"Bastardo! Lo hai ucciso tu! Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda! Col tuo sasso l’hai ucciso". E’ così che il vice questore Adriano Lauro si rivolge ad un ragazzo che urla "assassini!" alla polizia e che, in tutta risposta, si vede accusato di omicidio dal funzionario e si dà quindi alla fuga.

La "performance" di Adriano Lauro è entrata nella storia di Piazza Alimonda. In un primo tempo ammetto di aver pensato che quelle parole fossero solo lo sfogo di un momento di nervosismo… Beh, certo un nervosismo ben strano in un ufficiale che, davanti al Comitato Parlamentare d’inchiesta, dice di aver capito subito che il ragazzo era morto: "Io ero certo che fosse morto - ho una certa esperienza…"; "quando l'ho vista per terra [la persona – nota mia] ricordo di aver capito subito la situazione, perché usciva moltissimo sangue da una delle tempie, dall'occhio in particolare" (e, con tutta questa esperienza, Lauro riesce a pensare ad un sasso???!!! Davanti ad un ragazzo con un foro sopra lo zigomo, da cui il sangue esce a fontana???!!! Mah…). Ed il nervosismo di Lauro appare ancora più strano se pensiamo che, sempre davanti al Comitato Parlamentare, Lauro dice che per alcuni momenti pensò davvero ad un sasso quale causa della morte del manifestante. E questo renderebbe inspiegabile la "scarsa convinzione" (per usare un eufemismo) con cui i poliziotti rincorrono il ragazzo destinatario dell’accusa di Lauro: lasciano fuggire quello che, in quel momento, è un presunto assassino.

La mia prima ipotesi sulla "performance" di Adriano Lauro (una risposta dettata solo dalla concitazione di quei momenti) non sarà forse da sconfessare totalmente, ma resta il fatto che le parole di Lauro VANNO CONTESTUALIZZATE con il primo tentativo di depistaggio che fu operato: attribuire la morte di Carlo ad un sasso lanciato dai manifestanti. Questa teoria scomparì poche ore dopo l’evento, ma solo perché cominciarono ad affiorare le foto che mostravano un carabiniere armato a bordo del defender.

Resta il fatto che sulla fronte di Carlo appare una ferita inspiegabile (se non come ferita inferta DOPO la sua caduta a terra), che potrebbe essere relazionata con questo tentativo di depistaggio.

Stealth, Arto, Franti e Gin affrontano l’argomento con arguzia in alcuni articoli ben dettagliati.

 

GLI ALTRI PROTAGONISTI DI PIAZZA ALIMONDA

Il "caso Giuliani" non è solo una notizia di cronaca nera. Non è neppure solo un evento sintomatico della volontà di repressione di un movimento. Scavando nelle macerie, umane e metaforiche, di Piazza Alimonda possiamo trovare anche notizie illuminanti sulle nostre forze dell’ordine, strani incroci che, percorsi a ritroso, portano da Genova alla Somalia e ad atteggiamenti non proprio cristallini di personaggi che compaiono ANCHE a Piazza Alimonda, dopo essersi distinti in passato su altri "teatri".

"La bestia nera in Piazza Alimonda: un profilo dei protagonisti" è uno degli articoli più interessanti di tutta la controinchiesta; è qui che viene tratteggiato un ritratto "antropologico" di alcuni di questi personaggi. E’ anche l’articolo dove possiamo trovare quella che forse è la frase più bella ed emblematica di cosa abbia significato per l’intero movimento il 20 luglio 2001: "Quanto accadrà fra poco cambierà per sempre un sacco di gente. Tanta quanta non se n’era mai vista. Uno che non conoscevo diventerà, morendo, mio fratello".

Grazie, Franti, per aver scritto queste parole. Voglio "farle mie" e concludere con esse questo articolo, dedicato con affettuoso rispetto ai familiari di Carlo…

 

 

Francesco Barilli, di Ecomancina