Milano:
aprile 1975
video della morte di Zibecchi
Luci e ombre si riflettono
sul settimo anno del sessantotto italiano.
In Vietnam gli americani stavano per essere sconfitti
dall'esercito di Ho Chi Minh e di Giap.
In occidente la crisi petrolifera provocava fiammate
inflazionistiche.
In Italia proseguiva la strategia della tensione iniziata il 12
dicembre 1969 con la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura
di piazza Fontana: settori conservatori e reazionari dell'economia
e della politica, nazionale e non, tentavano con le stragi
compiute da servizi segreti e fascisti di cancellare le conquiste
sociali e politiche degli anni precedenti e di impedire lo
spostamento a sinistra del Paese.
In questo quadro maturavano e si facevano sempre più tragicamente
aggressive anche le azioni delle Brigate rosse e di altri gruppi
del terrorismo di sinistra.
Nel 1975, anno di elezioni amministrative, a Milano lo scontro
sociale fu aspro.
Polizia e carabinieri intervenivano con crescente durezza contro
lavoratori e studenti, mentre lo squadrismo della manovalanza
fascista era ampiamente tollerato, quando non incoraggiato.
Non è dunque un caso se fu proprio nell'aprile di quell'anno che,
il 16, un fascista assassinò a rivoltellate Claudio Varalli e, il
17, un carabiniere con un camion travolse e uccise Giannino
Zibecchi.
Se ne accorsero anche quotidiani e settimanali, fino a quel
momento piuttosto reticenti, che denunciarono le circostanze in
cui Claudio e Giannino avevano trovato la morte e condannarono,
seppur con accenti diversi e una certa ipocrisia, la violenza
fascista e delle forze dell'ordine.
Il 16 aprile la notizia dell'assassinio di Varalli in poche ore si
diffuse in tutto il Paese provocando un'ondata di sdegno popolare
e già nella stessa serata si svolsero le prime manifestazioni di
protesta a Milano.
La mattina del 17 numerose città italiane furono attraversate da
cortei che chiedevano la chiusura delle sedi dei fascisti e la
fine delle collusioni tra questi e gli apparati dello Stato. A
Milano la giornata cominciò con assemblee nella scuole medie
superiori, nelle università e nei luoghi di lavoro. Dalle
assemblee studenti e lavoratori uscirono in cortei che percorsero
le vie della città e si concentrarono in piazza Cavour, dove il
pomeriggio precedente era stato ucciso Varalli. Da qui un nuovo e
imponente corteo si avviò in direzione di via Mancini, sede della
federazione provinciale del Msi.
Il governo democristiano
rispose ordinando una nuova provocazione e in corso XXII marzo una
colonna di automezzi dei carabinieri, uscita dalla caserma di via
Lamarmora, si lanciò a tutta velocità contro i manifestanti. Due
camion, gli ultimi della colonna, si incaricarono di spazzare i
marciapiedi con una manovra a coda di rondine, come si dirà
graziosamente in termine tecnico.
Davanti a loro centinaia di persone cercarono scampo ma la folle
corsa non si arrestò. Pareva volessero un'altra strage.
Non l'ebbero, ma sul selciato rimase il corpo di Giannino Zibecchi.
Travolto e ucciso.
L'ordine dal ministero degli Interni era perentorio: reprimere
ogni protesta.
Altri due giovani, Rodolfo Boschi del Pci a Firenze e Tonino
Miccichè di Lotta continua a Torino, persero la vita in quei
giorni d'aprile.
Sdegno e indignazione crescevano e il governo ottenne il risultato
opposto a quello cercato: antifascismo e opposizione alla
Democrazia cristiana si rinsaldarono e la rabbia nel Paese fu
incontenibile.
lI 18 aprile lItalia democratica si strinse attorno ai suoi morti
e mentre cortei antifascisti attraversavano Milano, Torino,
Firenze, Napoli, Cagliari, in tutta la Penisola manifestazioni di
massa assalivano e devastavano numerose sedi del Msi.
Lo stesso giorno 15 milioni di lavoratori si unirono alla protesta
incrociando le braccia. Si fermano persino treni e aerei.
I sindacati chiesero al governo una svolta di democrazia.
Per tutta risposta il ministro Gui non trovò di meglio che
sostenere la tesi dell'incidente: era stata una sassata alla
tempia a far sbandare l'autista del camion che aveva ucciso
Zibecchi. Smentito immediatamente dalle fotografie che mostrano il
finestrino del lato guida chiuso e protetto da una grata.
Intanto nel Paese proseguivano scontri e provocazioni. A Roma, il
senatore Nencioni, parlamentare del Msi, scatenò un tafferuglio
nell'aula di Palazzo Madama. A Bari un attivista del Msi sparò e
ferì un giovane antifascista di vent'anni. A Torino fu guerriglia
tra manifestanti e polizia. Altri incidenti a Genova, Roma, Napoli
e Firenze.
A Milano la situazione era altrettanto tesa.
La rabbia popolare nei confronti dei fascisti non si placava e ne
fecero le spese Cesare Biglia del Msi, Rodolfo Mersi, complice di
Gianfranco Bertoli nell'attentato del maggio 1972 alla Questura di
Milano, Francesco Moratti della Cisnal e alcune sedi del Msi. Tra
queste quella di via Guerrini a Città Studi, da cui nel 1976, il
27 aprile, partì un'altra squadraccia omicida. Sotto i colpi di
Cavallini, Folli, Cagnani, Pietropaolo, Terenghi, Croce, Frascini
e Forcati quel giorno cadde Gaetano Amoroso, 21 anni, militante
del Comitato antifascista rivoluzionario di porta Venezia.
Aggredito all'uscita di una riunione, mentre tornava a casa con la
sua ragazza e altri compagni. Morì due giorni dopo.
Per motivi d'ordine pubblico
fu sospeso il processo a Loi, Murelli e altri squadristi imputati
dell'omicidio dell'agente di polizia Antonio Marino, ucciso nel
marzo 1973 durante una dimostrazione organizzata del Msi, oggi
Alleanza nazionale. E fu proprio uno degli imputati a confermare
che anche i disordini di quel giovedi nero del '73 erano
stati preparati in una sede missina.
Il 29 aprile '75 morì un giovane fascista: Sergio Ramelli, ferito
a colpi di chiave inglese da alcuni militanti di Avanguardia
operaia nei primi giorni del mese. Un episodio esecrabile che va
comunque collocato nel contesto di lotta accesa e senza tregua che
in quel periodo contrapponeva la sinistra progressista alla destra
fascista. E infatti nemmeno un mese dopo, il 25 maggio, gli
estremisti di destra tornarono a colpire. In via Mascagni, davanti
alla sede dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, cinque
fascisti - Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi,
Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco - uccisero a coltellate Alberto
Brasili, militante della sinistra democratica e antifascista. La
sua colpa: indossare un eskimo, considerato un abbigliamento da comunista,
e aver sfiorato un manifesto del Msi mentre passeggiava con la
fidanzata in piazza San Babila.
Alla fine di quel tragico mese d'aprile i partiti si produssero
nel consueto coro di condanne della violenza da qualunque parte
venga mentre il governo presieduto da Aldo Moro preparava
provvedimenti urgenti per l'ordine pubblico. Ma il Paese che aveva
saputo stringersi attorno ai suoi caduti aveva ormai ben chiaro
chi fossero gli avversari da battere: lo squadrismo fascista, lo
stragismo degli apparati dello Stato e le forze governative che li
utilizzavano e proteggevano.
A Milano il giorno dei funerali di Giannino Zibecchi la città si
fermò. Anche il Provveditore agli studi fu costretto a chiudere
le scuole per lutto cittadino.
Durante il tragitto dalla camera ardente a piazza del Duomo donne,
uomini, lavoratori, pensionati, studenti, semplici cittadini
resero omaggio alla salma di Giannino e alla figura di Claudio
Varalli, le cui esequie s'erano svolte precedentemente in forma
privata. Centinaia di migliaia di persone - 200.000 solo in
piazza del Duomo - che testimoniarono la forza e la profondità
dei sentimenti della coscienza collettiva dei milanesi.
Fotografie
di: Tano D'Amico, Giovanna Calvenzi, archivio ABC, archivio Per
non dimenticare.
I TRE GIORNI CRUCIALI
Il 1975 è stato un anno
denso di avvenimenti politici. Lo scontro sociale era acuto; le
forze progressiste e i gruppi giovanili della sinistra
extraparlamentare si contrapponevano al fronte della reazione
guidato dalla Democrazia cristiana, coadiuvato da una forte
componente neofascista, con aggressive spinte squadriste e
stragiste: una galassia formata da numerose e spesso fittizie
sigle di piccoli gruppi, all'interno della quale svolgeva un ruolo
primario il Movimento sociale italiano (Msi) guidato,
a livello nazionale, da Giorgio Almirante e, a Milano, da Franco
Servello. Soltanto nel maggio dell' anno precedente i fascisti
avevano compiuto a Brescia una strage in piazza della Loggia: una
bomba posta in un cestino per rifiuti, esplodendo durante un
comizio sindacale, aveva causato 8 morti e 84 feriti. In agosto
un'altra strage: 12 morti e 44 feriti per una bomba sul treno
"Italicus". Lo scontro sociale in atto voleva fermare
l'avanzare di una concezione moderna e democratica della società,
dove le conquiste dei lavoratori si saldassero alle esigenze più
generali di ampi strati sociali e in cui il progresso civile si
accompagnasse a una visione politica più avanzata e non legata
all'oscurantismo clericale.
Erano fortemente presenti nel tessuto sociale alcuni temi: la
battaglia per la casa, legata all'emergenza sfratti nelle grandi
città; la pressione esercitata dal movimento sindacale, in quella
fase animato da larghe spinte unitarie, per consolidare le
conquiste politiche e salariali e contrastare l'offensiva della
Confindustria; la lotta per una scuola meno nozionistica e più
legata alla realtà. Il 1975 era anche anno di elezioni
amministrative e in quel periodo ogni appuntamento elettorale era
un'occasione per immaginare il sorpasso del'intera sinistra sullo
schieramento governativo.
Il clima era quindi acceso e il governo guidato da Aldo Moro aveva
mostrato notevole aggressività nei confronti delle lotte popolari
e operaie. Così a Milano, in aprile, vi era una notevole tensione
che subì un'improvvisa accelerazione.
Il 16 aprile era in programma una manifestazione per il diritto
alla casa, cui partecipano migliaia di persone aderenti ai
sindacati degli inquilini, ai gruppi di base cresciuti in quegli
anni sulla parola d'ordine della casa come diritto sociale e ai
gruppi giovanili della sinistra rivoluzionaria. Al termine del
corteo, alcuni militanti del Movimento dei lavoratori per il
socialismo si avviarono verso l'Università statale, passando per
piazza Cavour. In quella piazza un gruppo di neofascisti stava
effettuando un volantinaggio: in realtà, come sempre in quegli
anni, quel tipo di presenza non era che un pretesto per
conquistare una zona, imponendovi una sorta di coprifuoco per
qualsiasi manifestazione di antifascismo e aggredendo chiunque
fosse, anche solo per l'aspetto, definibile di sinistra. Era
quanto avveniva stabilmente alla fine degli anni Sessanta in
piazza San Babila, con decine di persone aggredite e talvolta
accoltellate gravemente, prima che lo sdegno popolare vi
ristabilisse la convivenza civile. La tattica degli squadristi era
sempre la stessa: affermare una presenza, intimidire chiunque non
simpatizzasse per il neofascismo e cercare di colpire i militanti
di sinistra.
In piazza Cavour scattò la trappola: i giovani di ritorno
dal corteo vennero aggrediti da un gruppo di squadristi.
Reagirono, ma uno dei fascisti, Antonio Braggion, non esitò a
sparare ripetutamente, colpendo mortalmente Claudio Varalli. Le
indagini accertarono rapidamente che il proiettile aveva colto
Claudio alla nuca mentre cercava di mettersi in salvo, smentendo
la tesi dei fascisti che avevano sostenuto di essere stati vittime
di un'aggressione. Alla tragedia si aggiunse la provocazione:
vennero infatti fermati una decina di compagni di Claudio alcuni
dei quali furono imputati di rissa.
In pochi minuti la notizia fece il giro di Milano e piazza Cavour
divenne il punto di raccolta spontaneo di tutti gli antifascisti
della città, sgomenti e carichi di rabbia per l'ennesimo crimine
fascista lasciato impunito. Braggion infatti si era immediatamente
reso irreperibile e tale rimase fino quasi al termine del processo,
(si veda in documenti) che si tenne soltanto nel 1978.
La partecipazione al presidio fu enorme e appassionata. Nel
Palazzo dei Giornali, nella stessa piazza, avevano (e hanno
tuttora) sede la redazione e la tipografia de Il Giornale, allora
diretto da Indro Montanelli. A tarda sera si sparse la voce che il
numero in uscita dalle rotative conteneva una ricostruzione dei
fatti che accreditava la versione fascista di un'aggressione da
parte dei giovani di sinistra.
Questo affronto alla memoria di Varalli sembrò veramente troppo.
Così un gruppo consistente di manifestanti entrò nella sede del
quotidiano e ne impedì la distribuzione. Contemporaneamente,
venne indetta per l'indomani una manifestazione che affermasse con
forza che Milano era una città chiusa alla reazione e al
neofascismo.
Il 17 aprile 1975 era una bella giornata di sole, ma la tensione
era forte fin dalle prime ore della mattina. Nella città vennero
colpiti i simboli più sfacciati della presenza fascista,
soprattutto le sedi da cui partivano le spedizioni squadristiche e
prese forma un corteo immenso che voleva affermare un rifiuto
netto e invalicabile del fascismo. La meta finale era piazza
Cavour, il luogo dove poche ore prima Varalli era stato
assassinato, ma la folla enorme quasi per un moto spontaneo,
proseguì alla volta di via Mancini, dove vi era la federazione
del Msi, il centro motore di tutte le sanguinose attività di
provocazione nella città. A difesa della sede vi era un imponente
schieramento di polizia e carabinieri che non intendeva permettere
la logica conclusione della giornata: la distruzione della
federazione del Msi.
Come in piazza Cavour il giorno precedente, anche qui scattò una
trappola. Mentre migliaia di persone si accalcavano in corso XXII
marzo, all'angolo con via Mancini, ingaggiando con le cosiddette
forze dell'ordine una battaglia, sbucò da piazza Cinque Giornate
una colonna di automezzi dei carabinieri lanciati ad alta velocità.
La colonna si divise in due tronconi secondo un piano ben preciso
- come emergerà poi dal processo
(si veda in documenti) che si terrà nel 1980 - spazzando
letteralmente sia la strada che i marciapiedi, senza che i
carabinieri trascurassero di sparare colpi d'arma da fuoco dai
finestrini. I manifestanti tentarono di sfuggire alla carica ma
sul lato destro di corso XXII marzo, all'angolo con via Cellini,
il camion che stava spazzando il marciapiedi con il chiaro
intento di investire chiunque fosse sulla sua traiettoria, si trovò
innanzi il palo che reggeva l'orologio: l'autista ebbe un brusco
scarto per evitare l'ostacolo e ripiombò sulla strada dove si
trovava Giannino Zibecchi che venne travolto in pieno, schiacciato
e ucciso. Altri manifestanti restarono feriti, chi colpito meno
gravemente dall'urto del mezzo, chi ferito da colpi di arma da
fuoco.
All'improvviso la strada si svuotò, rimasero i poliziotti, i
carabinieri e il corpo di Zibecchi: un altro antifascista caduto
per difendere la democrazia in Italia.
L'assassinio di Varalli e Zibecchi scatenò un'ondata di sdegno e
manifestazioni in tutta Italia: quasi ovunque l'ordine del governo
fu quello di reprimere qualsiasi protesta. L'aprile '75 fu un
aprile di sangue che vide cadere anche Rodolfo Boschi, militante
del Pci ucciso dalla polizia durante scontri a Firenze, e Tonino
Micciché, militante di Lotta continua assassinato a Torino da una
guardia giurata durante manifestazione per il diritto alla casa e
per protestare contro i fatti di Milano.
Dopo l'assassinio di Varalli e Zibecchi a Milano, nello stesso
pomeriggio del 17 aprile, un altro forte e determinato corteo
attraversò la città a sottolineare l'irreversibilità della
scelta antifascista. La mattina del 18 aprile un enorme sciopero
inizialmente solo studentesco, ma che riuscì via via a
coinvolgere ampi settori di lavoratori, percorse le vie del centro
cittadino e segnò la fine delle provocazioni: nessuna presenza di
fascisti, di carabinieri o di polizia a turbare un momento di
lotta di grande intensità che anticipò la partecipazione ai
funerali dei due ragazzi.
I FUNERALI
Gli avvenimenti dei
giorni di aprile 1975 sono stati convulsi e drammatici. La posta
in gioco riguardava il mantenimento della possibilità di agire su
un terreno politico ampio e legato al territorio per
contrastare lo strapotere di una politica conservatrice e
reazionaria che aveva al centro, come sempre, la Democrazia
cristiana.
Per molti giovani queste lotte costituivano le prime esperienze
politiche in cui si sperimentavano, anche con ingenuità, forme di
partecipazione che non si conoscevano e in cui ci si misurava con
problemi che si padroneggiavano forse solo marginalmente. Eppure
ci si sentiva , con grande energia, all'interno del mondo sociale
e politico e sembrava di potere cambiare con facilità gli
equilibri politici del Paese .
Per molti ragazzi di allora fare i conti con la morte, con la
possibilità che qualcuno di loro potesse perdere la vita perché
si batteva per la difesa della democrazia fu un trauma. Nonostante
il riferimento alla Resistenza e all'esempio di chi aveva
sacrificato la propria vita per un ideale collettivo di altissimo
livello, nessuno riteneva di poter morire. Anche gli eccidi degli
anni Cinquanta compiuti dalla polizia democristiana di Scelba (da
Portella della Ginestra a Melissa, Reggio Emilia, Genova , etc. )
non si saldavano storicamente con il vissuto di questi milioni di
giovani che affrontavano una lotta dura e lunga con l'entusiasmo
dei vent'anni. Le stragi di Avola e Battipaglia, di piazza
Fontana, di piazza della Loggia, l'assassinio di Roberto
Franceschi e di molti altri militanti della sinistra - per mano
dei fascisti o di polizia e carabinieri - avevano chiarito che il
potere non si sarebbe fermato di fronte a nessuna tragedia , pur
di fermare quel forte movimento che metteva in discussione ogni
presupposto della società e della struttura economica e sociale.
Questo era il clima e il contesto in cui è maturata la morte di
Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. Così all'indomani del 17
aprile, quando la morte dei due giovani era un fatto compiuto, ci
si è subito misurati con la necessità di rendere loro un omaggio
adeguato , che sapesse saldare anche simbolicamente l'immediato
ricordo delle loro figure con il senso della loro partecipazione
alla vita sociale.
Come
organizzare quindi funerali degni della loro figura?
Claudio Varalli abitava con la famiglia a Bollate, i genitori
erano persone socialmente impegnate, anche politicamente sul luogo
di lavoro, e avrebbero compreso la necessità di affidare al
funerale del figlio un messaggio politico importante. Sconvolti
dal dolore di una perdita così tragica e irreversibile, hanno
ceduto alle pressioni del loro parroco, preoccupato unicamente di
smorzare i toni, di allontanare qualsiasi contaminazione politica
dalla funzione religiosa. Non è stato così possibile tributare a
Claudio gli onori politici che avrebbe meritato il suo sacrificio:
soltanto al momento della sepoltura una grande folla di giovani ha
invaso il cimitero di Bollate rompendo finalmente
l'accerchiamento.
Questo momento combattivo e commovente è riuscito a vincere
quella sorta di embargo artificioso, creando le premesse perché,
il giorno dopo, i funerali di Giannino Zibecchi si trasformassero
in un momento incredibile di protesta popolare.
Giannino Zibecchi non aveva famiglia, i genitori adottivi erano
morti. Ma nel momento del suo sacrificio è stato adottato dalla
parte migliore di Milano, quella che aveva ancora vivo il ricordo
dei morti degli anni Cinquanta e Sessanta e anche della
Resistenza. Nasce proprio in quegli anni la definizione di Nuova
Resistenza, in riferimento al movimento democratico popolare che
voleva impedire che la Democrazia cristiana, i suoi alleati, i
servizi segreti, le gerarchie militari e gli americani
trasformassero l'Italia in una sorta di repubblica delle banane.
La camera ardente fu allestita nella sede del consiglio di zona
Ticinese, che divenne subito meta di un pellegrinaggio di gente di
tutte le estrazioni: dal singolo cittadino al vecchio comandante
partigiano Giancarlo Pajetta e al sindaco Aldo Aniasi. Alcuni
artisti del quartiere si attivarono per realizzare manifesti e
stendardi con il volto di Zibecchi che, per due giorni,
segnalarono a chiunque passasse da viale Coni Zugna la veglia che
si teneva in quei locali.
Il giorno dei funerali di Zibecchi, un caldo lunedì, la città
espresse tutta la sua commossa partecipazione: tutte le strade
adiacenti al percorso, dai navigli fino in piazza Duomo,
traboccavano di gente, commossa e partecipe.
Aprivano il corteo le associazioni partigiane e i genitori di
Roberto Franceschi, assassinato dalla polizia a Milano nel 1973:
un tappeto di fiori rossi copriva la bara che passava in un
silenzio carico di voglia di lotta, spesso interrotto da canti
della Resistenza. Giovani, partigiani, associazioni, la parte
migliore di Milano esprimeva la sua volontà di andare avanti, nel
ricordo di due giovani vite stroncate per difendere concreti
ideali di libertà.
Le orazioni funebri in piazza Duomo costituirono il momento
simbolico di quei giorni, una sintesi che si ripeté pochi giorni
dopo durante uno sciopero generale sindacale. Una saldatura ideale
che in quei momenti, a poche settimane dal 25 aprile che segnava
il trentennale della Liberazione, costituì un momento di
coscienza politica e sociale molto alto per Milano e tutta
l'Italia.
Maggio
1975 : l'istituto Varalli
A maggio, gli
studenti del Turismo, la scuola di Claudio, erano ancora
frastornati dai tragici avvenimenti delle settimane precedenti, ma
sentivano il bisogno di riunirsi. Venne così indetta un'assemblea
a cui intervennero anche quelli che di solito non partecipavano.
C'erano tutti: gli studenti, gli insegnanti, il personale non
docente e il preside.
Il preside, Berardino Claudio, non era del genere tradizionale per
quei tempi.
L'anno prima si era diretto indignato verso un plotone di polizia,
che "osava" stazionare sotto la scuola in autogestione.
Aveva letteralmente ordinato al commissario di andarsene, dalla
sua scuola e dai suoi studenti.
Lui garantiva per gli studenti che, pure, non erano certo studenti
della cui tranquillità si poteva garantire ad occhi chiusi. La
polizia se ne andò.
All'assemblea di quel maggio, la mozione passò all'unanimità,
nessuno aveva dubbi: la nostra scuola, che non aveva mai avuto un
nome, si sarebbe chiamata Claudio Varalli.
Il preside prese il microfono ed annunciò: "Io penso alle
scartoffie per ufficializzare la cosa, voi intanto preparate la
targa da esporre fuori dalla scuola. Che provino a levarla."
La targa fu affissa dal padre di una studentessa della scuola nel
giro di una settimana, a fianco dell'entrata principale.
Era una lastra di marmo rosso, che recitava a lettere dorate:
"ISTITUTO TECNICO STATALE PER IL TURISMO CLAUDIO VARALLI".
Niente citazioni, niente slogan. Questo sarebbe semplicemente
stato il nome della scuola e voleva essere un dato di fatto.
Nel frattempo però, le scartoffie approntate dal preside
non erano andate a buon fine: gli enti preposti risposero che per
dedicare una strada od un edificio a qualcuno bisognava attendere
10 anni dopo la morte.
D'altra parte, già nella seconda metà del 1978, le scuole e le
strade dedicate ad Aldo Moro erano spuntate un po' dovunque,
nell'anno stesso della sua morte. Evidentemente, anche la
burocrazia ha due pesi e due misure……..
Nonostante questo, nessuno si sognò mai di levare la lastra di
marmo, ne' di nominare la scuola altrimenti: Varalli era e Varalli
sarebbe rimasta.
La targa rimase affissa alla scuola fino a che questa non venne
trasferita altrove, 22 anni dopo. Non era possibile rimuovere la
targa dal vecchio edificio senza distruggerla.
Gli amici ed i compagni di Claudio, si recarono allora alla nuova
sede per riavviare le pratiche ufficiali di nomina della scuola.
Purtroppo l'atmosfera era molto cambiata dagli anni 70, un
Consiglio d'istituto forse eccessivamente "pluralista"
ritenne la proposta "faziosa".
Gli insegnanti non erano più gli stessi e gli studenti tanto
meno.
Ulteriori richieste avanzate ad altri organismi caddero nel vuoto
e nell'indifferenza.
Ma oggi, nel 2001, finalmente la Scuola è stata intitolata a
Claudio Varalli
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