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Milano: aprile 1975

Foto Tano D'amico                       video della morte di Zibecchi

Luci e ombre si riflettono sul settimo anno del sessantotto italiano.
In Vietnam gli americani stavano per essere sconfitti dall'esercito di Ho Chi Minh e di Giap.
In occidente la crisi petrolifera provocava fiammate inflazionistiche.
In Italia proseguiva la strategia della tensione iniziata il 12 dicembre 1969 con la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana: settori conservatori e reazionari dell'economia e della politica, nazionale e non, tentavano con le stragi compiute da servizi segreti e fascisti di cancellare le conquiste sociali e politiche degli anni precedenti e di impedire lo spostamento a sinistra del Paese.
In questo quadro maturavano e si facevano sempre più tragicamente aggressive anche le azioni delle Brigate rosse e di altri gruppi del terrorismo di sinistra.
Nel 1975, anno di elezioni amministrative, a Milano lo scontro sociale fu aspro.
Polizia e carabinieri intervenivano con crescente durezza contro lavoratori e studenti, mentre lo squadrismo della manovalanza fascista era ampiamente tollerato, quando non incoraggiato.
Non è dunque un caso se fu proprio nell'aprile di quell'anno che, il 16, un fascista assassinò a rivoltellate Claudio Varalli e, il 17, un carabiniere con un camion travolse e uccise Giannino Zibecchi.
Se ne accorsero anche quotidiani e settimanali, fino a quel momento piuttosto reticenti, che denunciarono le circostanze in cui Claudio e Giannino avevano trovato la morte e condannarono, seppur con accenti diversi e una certa ipocrisia, la violenza fascista e delle forze dell'ordine.
Il 16 aprile la notizia dell'assassinio di Varalli in poche ore si diffuse in tutto il Paese provocando un'ondata di sdegno popolare e già nella stessa serata si svolsero le prime manifestazioni di protesta a Milano.
La mattina del 17 numerose città italiane furono attraversate da cortei che chiedevano la chiusura delle sedi dei fascisti e la fine delle collusioni tra questi e gli apparati dello Stato. A Milano la giornata cominciò con assemblee nella scuole medie superiori, nelle università e nei luoghi di lavoro. Dalle assemblee studenti e lavoratori uscirono in cortei che percorsero le vie della città e si concentrarono in piazza Cavour, dove il pomeriggio precedente era stato ucciso Varalli. Da qui un nuovo e imponente corteo si avviò in direzione di via Mancini, sede della federazione provinciale del Msi.

Libro Omaggio alla nuova Resistenza pag. 28

Il governo democristiano rispose ordinando una nuova provocazione e in corso XXII marzo una colonna di automezzi dei carabinieri, uscita dalla caserma di via Lamarmora, si lanciò a tutta velocità contro i manifestanti. Due camion, gli ultimi della colonna, si incaricarono di spazzare i marciapiedi con una manovra a coda di rondine, come si dirà graziosamente in termine tecnico.
Davanti a loro centinaia di persone cercarono scampo ma la folle corsa non si arrestò. Pareva volessero un'altra strage.
Non l'ebbero, ma sul selciato rimase il corpo di Giannino Zibecchi. Travolto e ucciso.
L'ordine dal ministero degli Interni era perentorio: reprimere ogni protesta.
Altri due giovani, Rodolfo Boschi del Pci a Firenze e Tonino Miccichè di Lotta continua a Torino, persero la vita in quei giorni d'aprile.
Sdegno e indignazione crescevano e il governo ottenne il risultato opposto a quello cercato: antifascismo e opposizione alla Democrazia cristiana si rinsaldarono e la rabbia nel Paese fu incontenibile.
lI 18 aprile lItalia democratica si strinse attorno ai suoi morti e mentre cortei antifascisti attraversavano Milano, Torino, Firenze, Napoli, Cagliari, in tutta la Penisola manifestazioni di massa assalivano e devastavano numerose sedi del Msi.
Lo stesso giorno 15 milioni di lavoratori si unirono alla protesta incrociando le braccia. Si fermano persino treni e aerei.
I sindacati chiesero al governo una svolta di democrazia.
Per tutta risposta il ministro Gui non trovò di meglio che sostenere la tesi dell'incidente: era stata una sassata alla tempia a far sbandare l'autista del camion che aveva ucciso Zibecchi. Smentito immediatamente dalle fotografie che mostrano il finestrino del lato guida chiuso e protetto da una grata.
Intanto nel Paese proseguivano scontri e provocazioni. A Roma, il senatore Nencioni, parlamentare del Msi, scatenò un tafferuglio nell'aula di Palazzo Madama. A Bari un attivista del Msi sparò e ferì un giovane antifascista di vent'anni. A Torino fu guerriglia tra manifestanti e polizia. Altri incidenti a Genova, Roma, Napoli e Firenze.
A Milano la situazione era altrettanto tesa.
La rabbia popolare nei confronti dei fascisti non si placava e ne fecero le spese Cesare Biglia del Msi, Rodolfo Mersi, complice di Gianfranco Bertoli nell'attentato del maggio 1972 alla Questura di Milano, Francesco Moratti della Cisnal e alcune sedi del Msi. Tra queste quella di via Guerrini a Città Studi, da cui nel 1976, il 27 aprile, partì un'altra squadraccia omicida. Sotto i colpi di Cavallini, Folli, Cagnani, Pietropaolo, Terenghi, Croce, Frascini e Forcati quel giorno cadde Gaetano Amoroso, 21 anni, militante del Comitato antifascista rivoluzionario di porta Venezia. Aggredito all'uscita di una riunione, mentre tornava a casa con la sua ragazza e altri compagni. Morì due giorni dopo.

da ABC: fascisti a Milano

 

 

 

Per motivi d'ordine pubblico fu sospeso il processo a Loi, Murelli e altri squadristi imputati dell'omicidio dell'agente di polizia Antonio Marino, ucciso nel marzo 1973 durante una dimostrazione organizzata del Msi, oggi Alleanza nazionale. E fu proprio uno degli imputati a confermare che anche i disordini di quel giovedi nero del '73 erano stati preparati in una sede missina.
Il 29 aprile '75 morì un giovane fascista: Sergio Ramelli, ferito a colpi di chiave inglese da alcuni militanti di Avanguardia operaia nei primi giorni del mese. Un episodio esecrabile che va comunque collocato nel contesto di lotta accesa e senza tregua che in quel periodo contrapponeva la sinistra progressista alla destra fascista. E infatti nemmeno un mese dopo, il 25 maggio, gli estremisti di destra tornarono a colpire. In via Mascagni, davanti alla sede dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, cinque fascisti - Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi, Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco - uccisero a coltellate Alberto Brasili, militante della sinistra democratica e antifascista. La sua colpa: indossare un eskimo, considerato un abbigliamento da comunista, e aver sfiorato un manifesto del Msi mentre passeggiava con la fidanzata in piazza San Babila.
Alla fine di quel tragico mese d'aprile i partiti si produssero nel consueto coro di condanne della violenza da qualunque parte venga mentre il governo presieduto da Aldo Moro preparava provvedimenti urgenti per l'ordine pubblico. Ma il Paese che aveva saputo stringersi attorno ai suoi caduti aveva ormai ben chiaro chi fossero gli avversari da battere: lo squadrismo fascista, lo stragismo degli apparati dello Stato e le forze governative che li utilizzavano e proteggevano.
A Milano il giorno dei funerali di Giannino Zibecchi la città si fermò. Anche il Provveditore agli studi fu costretto a chiudere le scuole per lutto cittadino.
Durante il tragitto dalla camera ardente a piazza del Duomo donne, uomini, lavoratori, pensionati, studenti, semplici cittadini resero omaggio alla salma di Giannino e alla figura di Claudio Varalli, le cui esequie s'erano svolte precedentemente in forma privata. Centinaia di migliaia di persone - 200.000 solo in piazza del Duomo - che testimoniarono la forza e la profondità dei sentimenti della coscienza collettiva dei milanesi.

Foto Giovanna Calvenzi

Fotografie di: Tano D'Amico, Giovanna Calvenzi, archivio ABC, archivio Per non dimenticare.

 

I TRE GIORNI CRUCIALI

Il 1975 è stato un anno denso di avvenimenti politici. Lo scontro sociale era acuto; le forze progressiste e i gruppi giovanili della sinistra extraparlamentare si contrapponevano al fronte della reazione guidato dalla Democrazia cristiana, coadiuvato da una forte componente neofascista, con aggressive spinte squadriste e stragiste: una galassia formata da numerose e spesso fittizie sigle di piccoli gruppi, all'interno della quale svolgeva un ruolo primario il Movimento sociale italiano (Msi) guidato, Foto Ansa Strage di Brescia a livello nazionale, da Giorgio Almirante e, a Milano, da Franco Servello. Soltanto nel maggio dell' anno precedente i fascisti avevano compiuto a Brescia una strage in piazza della Loggia: una bomba posta in un cestino per rifiuti, esplodendo durante un comizio sindacale, aveva causato 8 morti e 84 feriti. In agosto un'altra strage: 12 morti e 44 feriti per una bomba sul treno "Italicus". Lo scontro sociale in atto voleva fermare l'avanzare di una concezione moderna e democratica della società, dove le conquiste dei lavoratori si saldassero alle esigenze più generali di ampi strati sociali e in cui il progresso civile si accompagnasse a una visione politica più avanzata e non legata all'oscurantismo clericale.
Erano fortemente presenti nel tessuto sociale alcuni temi: la battaglia per la casa, legata all'emergenza sfratti nelle grandi città; la pressione esercitata dal movimento sindacale, in quella fase animato da larghe spinte unitarie, per consolidare le conquiste politiche e salariali e contrastare l'offensiva della Confindustria; la lotta per una scuola meno nozionistica e più legata alla realtà. Il 1975 era anche anno di elezioni amministrative e in quel periodo ogni appuntamento elettorale era un'occasione per immaginare il sorpasso del'intera sinistra sullo schieramento governativo. Foto Tano D'Amico Il clima era quindi acceso e il governo guidato da Aldo Moro aveva mostrato notevole aggressività nei confronti delle lotte popolari e operaie. Così a Milano, in aprile, vi era una notevole tensione che subì un'improvvisa accelerazione.
Il 16 aprile era in programma una manifestazione per il diritto alla casa, cui partecipano migliaia di persone aderenti ai sindacati degli inquilini, ai gruppi di base cresciuti in quegli anni sulla parola d'ordine della casa come diritto sociale e ai gruppi giovanili della sinistra rivoluzionaria. Al termine del corteo, alcuni militanti del Movimento dei lavoratori per il socialismo si avviarono verso l'Università statale, passando per piazza Cavour. In quella piazza un gruppo di neofascisti stava effettuando un volantinaggio: in realtà, come sempre in quegli anni, quel tipo di presenza non era che un pretesto per conquistare una zona, imponendovi una sorta di coprifuoco per qualsiasi manifestazione di antifascismo e aggredendo chiunque fosse, anche solo per l'aspetto, definibile di sinistra. Era quanto avveniva stabilmente alla fine degli anni Sessanta in piazza San Babila, con decine di persone aggredite e talvolta accoltellate gravemente, prima che lo sdegno popolare vi ristabilisse la convivenza civile. La tattica degli squadristi era sempre la stessa: affermare una presenza, intimidire chiunque non simpatizzasse per il neofascismo e cercare di colpire i militanti di sinistra.
In piazza Cavour scattò la trappola: i giovani di ritornoFoto Francesco Radino dal corteo vennero aggrediti da un gruppo di squadristi. Reagirono, ma uno dei fascisti, Antonio Braggion, non esitò a sparare ripetutamente, colpendo mortalmente Claudio Varalli. Le indagini accertarono rapidamente che il proiettile aveva colto Claudio alla nuca mentre cercava di mettersi in salvo, smentendo la tesi dei fascisti che avevano sostenuto di essere stati vittime di un'aggressione. Alla tragedia si aggiunse la provocazione: vennero infatti fermati una decina di compagni di Claudio alcuni dei quali furono imputati di rissa.
In pochi minuti la notizia fece il giro di Milano e piazza Cavour divenne il punto di raccolta spontaneo di tutti gli antifascisti della città, sgomenti e carichi di rabbia per l'ennesimo crimine fascista lasciato impunito. Braggion infatti si era immediatamente reso irreperibile e tale rimase fino quasi al termine del processo, (si veda in documenti) che si tenne soltanto nel 1978.
La partecipazione al presidio fu enorme e appassionata. Nel Palazzo dei Giornali, nella stessa piazza, avevano (e hanno tuttora) sede la redazione e la tipografia de Il Giornale, allora diretto da Indro Montanelli. A tarda sera si sparse la voce che il numero in uscita dalle rotative conteneva una ricostruzione dei fatti che accreditava la versione fascista di un'aggressione da parte dei giovani di sinistra.
Questo affronto alla memoria di Varalli sembrò veramente troppo. Così un gruppo consistente di manifestanti entrò nella sede del quotidiano e ne impedì la distribuzione. Contemporaneamente, venne indetta per l'indomani una manifestazione che affermasse con forza che Milano era una città chiusa alla reazione e al neofascismo.
Il 17 aprile 1975 era una bella giornata di sole, ma la tensione era forte fin dalle prime ore della mattina. Nella città vennero colpiti i simboli più sfacciati della presenza fascista, soprattutto le sedi da cui partivano le spedizioni squadristiche e prese forma un corteo immenso che voleva affermare un rifiuto netto e invalicabile del fascismo. La meta finale era piazza Cavour, il luogo dove poche ore prima Varalli era stato assassinato, ma la folla enorme quasi per un moto spontaneo, proseguì alla volta di via Mancini, dove vi era la federazione del Msi, il centro motore di tutte le sanguinose attività di provocazione nella città. A difesa della sede vi era un imponente schieramento di polizia e carabinieri che non intendeva permettere la logica conclusione della giornata: la distruzione della federazione del Msi.
Come in piazza Cavour il giorno precedente, anche qui scattò una trappola. Mentre migliaia di persone si accalcavano in corso XXII marzo, all'angolo con via Mancini, ingaggiando con le cosiddette forze dell'ordine una battaglia, sbucò da piazza Cinque Giornate una colonna di automezzi dei carabinieri lanciati ad alta velocità. La colonna si divise in due tronconi secondo un piano ben preciso - come emergerà poi dal processo (si veda in documenti) che si terrà nel 1980 - spazzando letteralmente sia la strada che i marciapiedi, senza che i carabinieri trascurassero di sparare colpi d'arma da fuoco dai finestrini. I manifestanti tentarono di sfuggire alla carica ma sul lato destro di corso XXII marzo, all'angolo con via Cellini, il camion che stava spazzando il marciapiedi con il chiaro intento di investire chiunque fosse sulla sua traiettoria, si trovò innanzi il palo che reggeva l'orologio: l'autista ebbe un brusco scarto per evitare l'ostacolo e ripiombò sulla strada dove si trovava Giannino Zibecchi che venne travolto in pieno, schiacciato e ucciso. Altri manifestanti restarono feriti, chi colpito meno gravemente dall'urto del mezzo, chi ferito da colpi di arma da fuoco.
All'improvviso la strada si svuotò, rimasero i poliziotti, i carabinieri e il corpo di Zibecchi: un altro antifascista caduto per difendere la democrazia in Italia.
L'assassinio di Varalli e Zibecchi scatenò un'ondata di sdegno e manifestazioni in tutta Italia: quasi ovunque l'ordine del governo fu quello di reprimere qualsiasi protesta. L'aprile '75 fu un aprile di sangue che vide cadere anche Rodolfo Boschi, militante del Pci ucciso dalla polizia durante scontri a Firenze, e Tonino Micciché, militante di Lotta continua assassinato a Torino da una guardia giurata durante manifestazione per il diritto alla casa e per protestare contro i fatti di Milano.
Dopo l'assassinio di Varalli e Zibecchi a Milano, nello stesso pomeriggio del 17 aprile, un altro forte e determinato corteo attraversò la città a sottolineare l'irreversibilità della scelta antifascista. La mattina del 18 aprile un enorme sciopero inizialmente solo studentesco, ma che riuscì via via a coinvolgere ampi settori di lavoratori, percorse le vie del centro cittadino e segnò la fine delle provocazioni: nessuna presenza di fascisti, di carabinieri o di polizia a turbare un momento di lotta di grande intensità che anticipò la partecipazione ai funerali dei due ragazzi.

I FUNERALI

Gli avvenimenti dei giorni di aprile 1975 sono stati convulsi e drammatici. La posta in gioco riguardava il mantenimento della possibilità di agire su un terreno politico ampio e legato al territorio per contrastare lo strapotere di una politica conservatrice e reazionaria che aveva al centro, come sempre, la Democrazia cristiana.
Per molti giovani queste lotte costituivano le prime esperienze politiche in cui si sperimentavano, anche con ingenuità, forme di partecipazione che non si conoscevano e in cui ci si misurava con problemi che si padroneggiavano forse solo marginalmente. Eppure ci si sentiva , con grande energia, all'interno del mondo sociale e politico e sembrava di potere cambiare con facilità gli equilibri politici del Paese .Libro Omaggio alla Nuova Resistenza pag. 24
Per molti ragazzi di allora fare i conti con la morte, con la possibilità che qualcuno di loro potesse perdere la vita perché si batteva per la difesa della democrazia fu un trauma. Nonostante il riferimento alla Resistenza e all'esempio di chi aveva sacrificato la propria vita per un ideale collettivo di altissimo livello, nessuno riteneva di poter morire. Anche gli eccidi degli anni Cinquanta compiuti dalla polizia democristiana di Scelba (da Portella della Ginestra a Melissa, Reggio Emilia, Genova , etc. ) non si saldavano storicamente con il vissuto di questi milioni di giovani che affrontavano una lotta dura e lunga con l'entusiasmo dei vent'anni. Le stragi di Avola e Battipaglia, di piazza Fontana, di piazza della Loggia, l'assassinio di Roberto Franceschi e di molti altri militanti della sinistra - per mano dei fascisti o di polizia e carabinieri - avevano chiarito che il potere non si sarebbe fermato di fronte a nessuna tragedia , pur di fermare quel forte movimento che metteva in discussione ogni presupposto della società e della struttura economica e sociale. 
Questo era il clima e il contesto in cui è maturata la morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. Così all'indomani del 17 aprile, quando la morte dei due giovani era un fatto compiuto, ci si è subito misurati con la necessità di rendere loro un omaggio adeguato , che sapesse saldare anche simbolicamente l'immediato ricordo delle loro figure con il senso della loro partecipazione alla vita sociale.
Foto Francesco RadinoCome organizzare quindi funerali degni della loro figura?
Claudio Varalli abitava con la famiglia a Bollate, i genitori erano persone socialmente impegnate, anche politicamente sul luogo di lavoro, e avrebbero compreso la necessità di affidare al funerale del figlio un messaggio politico importante. Sconvolti dal dolore di una perdita così tragica e irreversibile, hanno ceduto alle pressioni del loro parroco, preoccupato unicamente di smorzare i toni, di allontanare qualsiasi contaminazione politica dalla funzione religiosa. Non è stato così possibile tributare a Claudio gli onori politici che avrebbe meritato il suo sacrificio: soltanto al momento della sepoltura una grande folla di giovani ha invaso il cimitero di Bollate rompendo finalmente l'accerchiamento.
Questo momento combattivo e commovente è riuscito a vincere quella sorta di embargo artificioso, creando le premesse perché, il giorno dopo, i funerali di Giannino Zibecchi si trasformassero in un momento incredibile di protesta popolare.
Giannino Zibecchi non aveva famiglia, i genitori adottivi erano morti. Ma nel momento del suo sacrificio è stato adottato dalla parte migliore di Milano, quella che aveva ancora vivo il ricordo dei morti degli anni Cinquanta e Sessanta e anche della Resistenza. Nasce proprio in quegli anni la definizione di Nuova Resistenza, in riferimento al movimento democratico popolare che voleva impedire che la Democrazia cristiana, i suoi alleati, i servizi segreti, le gerarchie militari e gli americani trasformassero l'Italia in una sorta di repubblica delle banane.
La camera ardente fu allestita nella sede del consiglio di zona Ticinese, che divenne subito meta di un pellegrinaggio di gente di tutte le estrazioni: dal singolo cittadino al vecchio comandante partigiano Giancarlo Pajetta e al sindaco Aldo Aniasi. Libro Omaggio alla Nuova resistenza pag. 40Alcuni artisti del quartiere si attivarono per realizzare manifesti e stendardi con il volto di Zibecchi che, per due giorni, segnalarono a chiunque passasse da viale Coni Zugna la veglia che si teneva in quei locali.
Il giorno dei funerali di Zibecchi, un caldo lunedì, la città espresse tutta la sua commossa partecipazione: tutte le strade adiacenti al percorso, dai navigli fino in piazza Duomo, traboccavano di gente, commossa e partecipe.
Aprivano il corteo le associazioni partigiane e i genitori di Roberto Franceschi, assassinato dalla polizia a Milano nel 1973: un tappeto di fiori rossi copriva la bara che passava in un silenzio carico di voglia di lotta, spesso interrotto da canti della Resistenza. Giovani, partigiani, associazioni, la parte migliore di Milano esprimeva la sua volontà di andare avanti, nel ricordo di due giovani vite stroncate per difendere concreti ideali di libertà.
Le orazioni funebri in piazza Duomo costituirono il momento simbolico di quei giorni, una sintesi che si ripeté pochi giorni dopo durante uno sciopero generale sindacale. Una saldatura ideale che in quei momenti, a poche settimane dal 25 aprile che segnava il trentennale della Liberazione, costituì un momento di coscienza politica e sociale molto alto per Milano e tutta l'Italia.

Maggio 1975 : l'istituto Varalli

A maggio, gli studenti del Turismo, la scuola di Claudio, erano ancora frastornati dai tragici avvenimenti delle settimane precedenti, ma sentivano il bisogno di riunirsi. Venne così indetta un'assemblea a cui intervennero anche quelli che di solito non partecipavano. C'erano tutti: gli studenti, gli insegnanti, il personale non docente e il preside.
Il preside, Berardino Claudio, non era del genere tradizionale per quei tempi.
L'anno prima si era diretto indignato verso un plotone di polizia, che "osava" stazionare sotto la scuola in autogestione. Aveva letteralmente ordinato al commissario di andarsene, dalla sua scuola e dai suoi studenti.
Lui garantiva per gli studenti che, pure, non erano certo studenti della cui tranquillità si poteva garantire ad occhi chiusi. La polizia se ne andò.
All'assemblea di quel maggio, la mozione passò all'unanimità, nessuno aveva dubbi: la nostra scuola, che non aveva mai avuto un nome, si sarebbe chiamata Claudio Varalli.
Il preside prese il microfono ed annunciò: "Io penso alle scartoffie per ufficializzare la cosa, voi intanto preparate la targa da esporre fuori dalla scuola. Che provino a levarla."
La targa fu affissa dal padre di una studentessa della scuola nel giro di una settimana, a fianco dell'entrata principale.
Era una lastra di marmo rosso, che recitava a lettere dorate: "ISTITUTO TECNICO STATALE PER IL TURISMO CLAUDIO VARALLI".
Niente citazioni, niente slogan. Questo sarebbe semplicemente stato il nome della scuola e voleva essere un dato di fatto.
Nel frattempo però, le scartoffie approntate dal preside non erano andate a buon fine: gli enti preposti risposero che per dedicare una strada od un edificio a qualcuno bisognava attendere 10 anni dopo la morte.
D'altra parte, già nella seconda metà del 1978, le scuole e le strade dedicate ad Aldo Moro erano spuntate un po' dovunque, nell'anno stesso della sua morte. Evidentemente, anche la burocrazia ha due pesi e due misure……..
Nonostante questo, nessuno si sognò mai di levare la lastra di marmo, ne' di nominare la scuola altrimenti: Varalli era e Varalli sarebbe rimasta.
La targa rimase affissa alla scuola fino a che questa non venne trasferita altrove, 22 anni dopo. Non era possibile rimuovere la targa dal vecchio edificio senza distruggerla.
Gli amici ed i compagni di Claudio, si recarono allora alla nuova sede per riavviare le pratiche ufficiali di nomina della scuola. Purtroppo l'atmosfera era molto cambiata dagli anni 70, un Consiglio d'istituto forse eccessivamente "pluralista" ritenne la proposta "faziosa".
Gli insegnanti non erano più gli stessi e gli studenti tanto meno.
Ulteriori richieste avanzate ad altri organismi caddero nel vuoto e nell'indifferenza.
Ma oggi, nel 2001, finalmente la Scuola è stata intitolata a Claudio Varalli